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NAUSEA (LA) --- di Jean Paul Sartre
Questo è un libro che si presta a chi ha una vita complicata e se la vuole complicare ancora di più. Non trovo altre parole per riassumere le sensazioni suscitate dalla lettura de La Nausea, l’opera più nota del filosofo esistenzialista Jean Paul Sartre. Perché l’ho letta? Perché il giorno in cui l’ho presa in biblioteca provavo esattamente le sensazioni che ho ritrovato descritte al suo interno. In primo luogo bisogna dire che non è un “romanzo” in senso stretto; non c’è una storia, non ci sono avvenimenti collegati, non ci sono personaggi accuratamente sviluppati. È una serie di episodi quotidiani visti da Antoine Roquentin, intellettuale sradicato che conduce una vita monotona e priva di significati nella città immaginaria di Bouville, Francia. Lavora stancamente alla biografia di un personaggio storico minore e subisce l’atmosfera piccolo-borghese della città, alla quale è estraneo ed indifferente. In questo contesto affiora la consapevolezza che il mondo esiste ed è gratuito, non ha senso, tutti vivono e muoiono senza una ragione, eccetto quelle, illusorie, che gli uomini si inventano da soli. Affiora così la Nausea, il disgusto di tutto in quanto contingente, non necessario, di troppo. Mentre Antoine sperimenta queste sensazioni, le uniche figure attive del romanzo, l’Autodidatta e l’ex-fidanzata Anny, gli propongono le loro ricette di vita: il primo parla di amore per l’umanità, di giustizia sociale, di grandi ideali; la seconda vive cercando di creare dei “momenti perfetti”, ovvero delle piccole situazioni quotidiane in cui tutto funziona come si desidera e si ritiene bello ed opportuno. Che Anny abbia trovato la strada per vincere la Nausea, nel tentativo di rendere importante il momento più banale della vita? Sarà anche questo l’esito finale e consolatorio della speculazione di Sartre, ma fino all’ultima pagina ho avuto l'impressione di leggere un messaggio disperato. La lettura è capitata a fagiolo, perché sono settimane in cui mi sento esattamente come Roquentin: disperato, nauseato dalla casualità con cui tutto nasce, passa e viene distrutto; ciononostante ho trovato La Nausea davvero pesante, non da leggere perché è scritto con garbo e grande acutezza intellettuale, quanto nell’assimilazione dei contenuti e delle prospettive, che vanno troppo oltre il mio umano sentire. Questa natura pesante solo perché esiste non fa parte delle cose che mi creano problemi, visto che i guai dell’uomo derivano perlopiù dalla società in cui si vive, non certo dall’esistenza in sé. Il pensiero filosofico esistenzialista è moderno e quanto di più naturale ci possa essere, se ci si ferma un attimo a riflettere. L’unica soluzione per non sentire che tutto esiste è non pensarci, cosa che riesce benissimo alla maggior parte delle persone, che sostituiscono il concetto del diritto a quello della necessità. Il guaio è che non c’è soluzione e le risposte parziali, poco convinte, che si distinguono nelle ultime pagine del libro ne sono la conferma. La Nausea documenta uno stato d’animo che Sartre ha provato e ha cercato di esorcizzare dalla propria vita, quindi si configura come un testo monco, non concluso, quasi la fotografia di un brutto momento. Valeva la pena immortalarlo solo perché lo si è provato? Sì, certo, è sempre utile scrivere i propri pensieri, quando sono precisi ed universali. Vale la pena leggerlo? Con grande prudenza. Di buono c’è che sono rimasto così desolato nel condividere le visioni di Antoine Roquentin che ne sono uscito più forte, desideroso di non provare mai un simile disgusto per il mondo. Si rischia di impazzire, di suicidarsi o, nel migliore dei casi, di perdere inutilmente molti anni della propria vita. Meglio adeguarsi almeno un po’ alle convenzioni, cercare il senso della vita nelle cose semplici, perché altra scelta non c’è se non l’autodistruzione; averci pensato e aver fatto una scelta aiuta ad essere consapevoli che non si vive in un certo modo perché non si ha la consapevolezza della sua gratuità, ma perché la si è accettata in quanto tale.
Inviato il: 6/3/2009 23:24
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LA CATTEDRALE --- di Joris-Karl Huysmans
Chissà perché ho preso in prestito questo libro? Avevo sentito parlare dell’autore e sapevo che questo era il suo maggior successo commerciale, eppure non avevo alcuna nozione sui contenuti e sullo stile de La cattedrale. Ho iniziato la lettura senza attese di nessun genere e in un momento di traballante concentrazione. Lo stile di scrittura ricco e dettagliato mi ha fuorviato: ho creduto che fosse stato scritto in pieno secolo XIX, invece Huysmans è vissuto nella fin de siècle e ha pubblicato questo racconto nel 1898. Ma si può davvero parlare di racconto? Direi di no, visto che abbiamo a che fare con una delle trame più flebili ed inconsistenti che si possano trovare. Lo scrittore non focalizza i propri sforzi sulle vicende personali di Durtal, protagonista “in pectore” de La cattedrale e di altri romanzi, bensì sul luogo dove avviene la rinascita della sua fede religiosa: la cattedrale di Chartres. Mirabile opera del gotico, al pari di numerose altre chiese francesi (Amiens, Reims, Bourges, Notre-Dame de Paris), la cattedrale di Chartres è descritta nei minimi dettagli, svelata nei suoi recessi più oscuri ed impenetrabili, esaltata per la sua storia di prodigi e fatti storici di prim’ordine. Huysmans si cala nel suo alter ego letterario Durtal e, con l’aiuto di pochi altri personaggi, illustra le opere d’arte, snocciola aneddoti e fa il possibile per trasmettere la spiritualità che un edificio così austero, permeato di preghiere, cerimonie ed oblazioni, gli ha comunicato durante le sue visite. Da quel che ho letto c’è stata una controversia riguardo alla conversione di Huysmans al cattolicesimo; egli nacque in Olanda, paese di fede protestante, visse una vita non troppo soddisfacente che stimolò una vena pessimistica nel suo stile di scrittura. Il tardo ravvedimento, che lo portò a diventare oblato benedettino poco prima della morte, è ben rappresentato in questo romanzo, dove il protagonista vive gli stessi dubbi, la mancanza di obiettivi ed energie che deve aver caratterizzato l’autore in quel periodo tormentato della sua vita. Chissà se ne è venuto fuori come Durtal, incantato dallo splendore della cattedrale e da secoli di costante devozione? Non lo sapremo mai con certezza, e poco importa. Quel che resta è un racconto singolare, una specie di “guida turistica” a Notre-Dame de Chartres intrisa di afflato mistico e tensione spirituale. La prosa è abbastanza scorrevole, nonostante l’abbondanza di particolari. Le descrizioni si susseguono ininterrotte, ma non insistono troppo a lungo sullo stesso particolare; nel complesso non ci si stanca a leggere La cattedrale, però sono costretto a catalogarlo tra quei romanzi che non sono per tutti, in quanto troppo distanti dagli standard odierni dove c’è poca riflessione e tanta azione. Qui è l’esatto contrario e serve una certa dose di pazienza (e devozione!) per arrivare in fondo alle 242 pagine.
Inviato il: 20/6/2009 19:28
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I TRE MOSCHETTIERI --- di Alexandre Dumas
Questo è un gran classico della letteratura. Tutti conoscono la storia e i protagonisti, per sommi capi, però mi chiedo quanti lo abbiano effettivamente letto. Oggi ho ventisette anni e finora non avevo avuto l’occasione o l’ispirazione per farlo; faccio fatica a pensare che altri non abbiano avuto esitazioni, visto che è anche piuttosto lungo (424 pagine molto ampie e scritte in piccolo). È impressionante pensare che un testo così corposo sia stato scritto tra il 14 marzo e il 14 luglio 1844 e che sia uscito giorno dopo giorno sul quotidiano parigino Le Siècle, per raggiungere entro la fine dell’anno lo status di libro vero e proprio. Se tuttavia si pensa che allora gli scrittori erano pagati per quanto producevano, si comprende che Dumas aveva i suoi buoni motivi; infatti la produzione di questo autore è sterminata, fatta di centinaia di opere di vario genere, di cui I Tre Moschettieri è solo il titolo più noto ed amato. È una storia fatta di storie, come si può immaginare vista la cadenza delle pubblicazioni. Forte di personaggi ben caratterizzati, simpatici ed imprevedibili, come il guascone D’Artagnan ed i compagni Athos, Porthos e Aramis, l’autore trascina il romanzo a suon di colpi di scena, rapimenti, missioni segrete, amori, imprevisti, coincidenze ed assassinii. Si divide essenzialmente in due parti. Nella prima D’Artagnan giunge a Parigi e conosce gli amici moschettieri, s’innamora di Costanza Bonacieux e viene incaricato da questa di raggiungere l’Inghilterra per recuperare dei puntali di diamanti, incautamente ceduti dalla regina Anna d’Austria al Duca di Buckingham come pegno del suo amore. Il gran nemico di Sua Altezza è Sua Eminenza il cardinale Richelieu, i cui intrighi non riescono ad avere la meglio su D’Artagnan e compari. La seconda parte è caratterizzata dalla comparsa di Milady, contessa di Winter, donna infida e dal passato scabroso. Prima di essere catturata e giustiziata, Milady ne combinerà di tutti i colori ed i nostri eroi avranno un bel daffare a tenerla a bada. Tutto questo si svolge in uno scenario squisitamente storico, sia nell’ambientazione che nel riferimento ad eventi reali, soprattutto l’assedio di La Rochelle, roccaforte dei protestanti francesi. Personaggi storici si muovono accanto a quelli immaginari con naturalezza e senza forzature, grazie all’abilità dell’autore nel creare l’atmosfera dell’epoca. Spacconeria e baldanza si alternano a forti passioni e grandi atti di magnanimità e devozione, secondo quel che piace immaginare dei bei tempi andati. Dumas lo sa benissimo e dà al suo pubblico quel che desidera: avventura, passione, intrigo, suspense e dimensione storica. Egli vuole farsi leggere giorno dopo giorno e per questo rifiuta l’eccessiva complessità, sia nel lessico che nell’intreccio. La vicenda scorre rapida, i nuclei tematici si aprono e si chiudono rapidamente, senza fare grossi riferimenti a quel che è passato. È veramente un fiume in piena, condotto con grande brio e poche pause ben studiate, che offrono graditi momenti di respiro dopo che tanti eventi hanno animato la scena. Di certo Dumas aveva studiato questo metodo a tavolino, però la costanza nell’applicarlo è ammirevole. Sebbene si percepisca la natura frammentaria del romanzo non c’è mai un’incongruenza, mai un errore vistoso. Nella sua semplicità, I Tre Moschettieri è un capolavoro di letteratura d’intrattenimento. Consigliare un classico ha del demenziale e non ce ne sarebbe bisogno, ma dopo averlo letto mi sento in dovere di sottolineare tutto il suo valore. Il lettore si troverà immerso in un’altra epoca, senza pericolo di annoiarsi e senza bisogno di documentarsi fuori del testo, come magari potrebbe servire a chi legge I Promessi Sposi.
Inviato il: 20/6/2009 19:30
Ultima modifica di Gurgaz il 22/6/2009 0:16:45
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VENT’ANNI DOPO --- di Alexandre Dumas
Se I Tre Moschettieri è un romanzo universalmente conosciuto, il suo seguito Vent’anni dopo non gode della medesima popolarità. Io per esempio non conoscevo il più piccolo aspetto della trama e ho affrontato la lettura con curiosità ed interesse, poiché non avevo idea di come la fervida fantasia di Dumas avesse fatto proseguire le avventure di D’Artagnan e dei suoi inseparabili compagni. Il titolo segnala in modo infallibile la cesura temporale tra i fatti del precedente romanzo e l’epoca in cui è ambientato il secondo: è il 1648, il cardinale Richelieu e Luigi XIII sono morti e la Francia è retta dalla regina spagnola Anna d’Austria e dal suo primo ministro ed amante, l’odiato cardinale italiano Giulio Mazzarino. Re Luigi XIV è un bambino e nel paese serpeggiano tumulti popolari guidati da nobili e parlamentari opportunisti. È quella che viene ricordata come insurrezione della Fronda, un primo segno d’insofferenza verso l’accentramento del potere che vedrà nel regno del Re Sole il suo apice e nella Rivoluzione il suo epilogo. D’Artagnan è sempre tra i moschettieri mentre i suoi colleghi si sono ritirati da tempo. Mazzarino convoca il Guascone e lo incarica di una missione speciale, nella quale avrà bisogno di compagni fidati. D’Artagnan deve prima ritrovare Athos, Porthos e Aramis, quindi svolgere la missione affidatagli, che li porterà in Inghilterra dove Re Carlo I Stuart sta per cadere vittima della rivolta capeggiata da Oliver Cromwell. I moschettieri proveranno a cambiare il destino del re ma la comparsa di un micidiale antagonista, Mordaunt, il vendicativo figlio di Milady de Winter, mette in serio pericolo le loro vite e riporta le vicende sui binari prestabiliti dalla storia. I tempi di pubblicazione sul feuilletton sono ancora da record (poco più di 6 mesi per un romanzo di oltre 500 pagine scritte in piccolo), così come il successo e la creatività con cui gli eventi sono costruiti e concatenati. La differenza principale tra Vent’anni dopo e I Tre Moschettieri è una visuale più realistica e fedele, meno incentrata sulle prodezze dei protagonisti, ma anche più triste e riflessiva. Ciò che è curioso è l’apparente messaggio ideologico che traspare da numerosi dialoghi, una sorta di inno alla regalità caduta, tuttavia non si possono imputare al repubblicano Dumas intenzioni diverse dal desiderio di creare l’atmosfera dell’epoca. La penetrazione psicologica dei personaggi è assai migliorata, sebbene la forma del testo obblighi a sfruttare molto il dialogo e ad utilizzare degli archetipi. Le figure già note acquistano spessore, varietà ed interesse, mentre ne vengono aggiunte di nuove, come il crudele Mordaunt e Raul, figlio adottivo di Athos e Visconte di Bragelonne, protagonista del terzo romanzo del ciclo. Alcuni passi sono assai ricchi di dettagli storici e risultano leggermente più ostici rispetto alla limpida e scorrevole prosa de I Tre Moschettieri, che comunque è riproposta tale e quale nella maggior parte del romanzo. C’è una cospicua sezione dedicata all’evasione del duca di Beaufort e all’arresto del ministro Broussel, figure cardine della fazione frondista. Naturalmente i nostri eroi hanno parti di rilievo negli eventi importanti dell’epoca, coerentemente con il principio caro a Dumas per cui “la storia è un gancio a cui appendere le trame dei romanzi”. Nonostante dimostri un certo grado di presunzione, non posso non sottoscrivere il giudizio dell’autore, che ha dichiarato di aver insegnato più storia lui ai Francesi di tanti illustri professori. Poiché credo che questo romanzo sia poco noto mi sento ancor più in dovere di segnalarlo, perché è una potente immersione in un altro tempo, meno incentrata sulla dinamica “cappa e spada” ma più ricca di dettagli storici interessanti. È consigliabile leggerlo di seguito a I Tre Moschettieri, perché sono presenti forti legami con il primo spumeggiante capitolo della trilogia.
Inviato il: 23/8/2009 23:34
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LA SAGA DI ELRIC DI MELNIBONÈ --- di Michael Moorcock
La prima volta che ho letto i racconti di Elric di Melniboné avevo diciannove anni e mi cibavo di fantasy come tanti giovani di quell’età ed epoca. Passare da racconti tutto sommato indolori all’approccio pseudo-filosofico di Moorcock segnò per me un importante salto di qualità. Per la prima volta il fantasy non mi sembrò solo evasione, ma anche qualcosa che poteva arricchire la mia personalità. Siccome è stata la scintilla che ha fatto scaturire la mia passione per la scrittura, ho scelto di rileggere le opere di quest’autore a distanza di anni, anche per confrontarle con la mia produzione letteraria e per valutare la bontà della recente ristampa Fanucci. Non bisogna dimenticare che queste opere furono scritte nei primi Anni Settanta. Allora l’idea di un anti-eroe albino armato della spada demoniaca Tempestosa, imperatore rinnegato di una nazione di semidei, Campione Eterno e forgiatore del destino di un mondo dove si battono le forze del Caos e della Legge, soggette ad un Fato immutabile per tutti, era assai originale. Elric è affascinante nella sua debolezza di corpo e confusione d’animo, difetti che non gli impediscono di compiere imprese al di sopra delle possibilità umane. La sua vicenda è strana, a tratti molto triste, spesso frenetica, onirica, spietata e ricca di sfaccettature inattese. Non si indugia su passioni banali, eventi modesti e piccolezze; a Moorcock interessano le tappe fondamentali del destino di Elric e dei Regni Giovani, le battaglie in cui muoiono dei, demoni e i signori delle nazioni, o in cui antiche leggende trovano compimento. Lo stile di scrittura è semplice ed agile come è tipico del genere, tuttavia l’autore si concede qualche vezzo ed adotta termini più ricercati del solito, pur inseriti in un periodare asciutto e spesso molto semplificato. I personaggi si scambiano auliche battute e le descrizioni sono roboanti, ma sono dominate dal concetto di brevità ed essenzialità. Il ciclo base di Elric non si concede strappi alla regola; solo nei racconti successivi, come La Fortezza della Perla, Moorcock amplia un po’ i dialoghi e a si sofferma a lungo su visioni e sensazioni. In entrambe le espressioni artistiche è mantenuta la scorrevolezza del testo, che garantisce sempre il piacere della lettura. Il mondo di Elric non è solo novità, colore, magia ed avventure. Queste formano l’ambiente da cui lo scrittore trae ispirazione per ragionamenti universali sull’uomo, sulla libertà che gli è data e sulle seduzioni che questa comporta. Moorcock non dà soluzioni e predica meno di quel che ci si aspetta, avvalendosi di espedienti letterari anche molto semplici per sbloccare le situazioni ideologicamente irrisolvibili. Non c’è totale coerenza di pensiero tra le varie fasi della saga: in certi punti Elric appare disperato e privo di qualsiasi aspirazione, altre volte è crudele e vendicativo, fino a diventare all’occorrenza un benefattore dell’umanità più virtuosa (vedi La Fortezza della Perla). C’è quindi etica e filosofia in questi racconti, ma caratterizzate da aspetti arbitrari e contraddittori, “figli del Caos” per dirla con l’autore. Questo è uno dei pregi della produzione di Michael Moorcock, che sa porre tante domande stimolanti in modo accessibile, ma nello stesso tempo è una mancanza di coerenza che gli impedisce di essere un capolavoro della letteratura. Ciò nondimeno, un amante del fantasy non può lasciarsi scappare questi romanzi avvincenti e seminali. Nota all’edizione Fanucci: al di là della sintassi e del lessico adoperati, sempre adeguati e scorrevoli, segnalo un’eccessiva quantità di refusi e qualche scelta inspiegabile, vedi quel Dr.Jest criminalmente tradotto come “il Clemente”, in spregio alla passione dei vecchi lettori per questao agghiacciante personaggio secondario. Anche le incoerenze tra il contributo dei vari traduttori, ad esempio la spada Tempestosa che ne La Fortezza della Perla acquisisce improvvisamente l’articolo (“Elric impugnò la Tempestosa”), testimoniano approssimazione e fretta nel lavoro. Nel complesso si poteva fare meglio e una mappa allegata ai volumi era il minimo che si potesse chiedere, vista la difficoltà ad orizzontarsi in un mondo fantasy dalla geografia contorta.
Inviato il: 21/10/2009 0:01
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LA MALEDIZIONE DEL DEMONE --- di R.A. Salvatore
Non so perché ricevo in regalo tanti libri, visto che nessuno conosce bene i miei gusti letterari. Spesso si tratta di romanzi fantasy, un genere a cui mi si vede ancora legato ma che da tempo guardo con sospetto, data l’enorme mole di opere e la scarsa necessità delle stesse. Il fantasy avrebbe molte vie per sperimentare, per mescolarsi con altri generi ed attingere ad un passato a dir poco enciclopedico, ma gli autori preferiscono dare al pubblico proprio ciò che si aspetta. Questo romanzo del prolifico R.A. Salvatore è uno dei vari esempi di saga fantasy infinita, in cui si crea un mondo atto a generare mille storie, fino a che gli incassi non caleranno. Così, dopo la Trilogia del Demone, questo libro dà inizio addirittura ad una tetralogia, l’Eredità del Demone. Credo che le prime quaranta pagine, in cui si riassumono spasmodicamente i fatti recenti e si ripescano decine e decine di personaggi, siano a dir poco una mazzata se non si conosce la saga precedente. Ma nessuno dei fedelissimi di Salvatore si sarebbe perso la Trilogia del Demone, perciò poco importa che gli altri siano disorientati. Il regno di Corona, una monarchia coadiuvata dalla forte Chiesa Abellicana, di stampo monastico, è appena uscito da un periodo tormentato, in cui il demone dactyl Bestesbulzibar (!?!?) era riuscito ad impossessarsi del capo della Chiesa Abellicana. Due eroi, Elbryan e Jilseponie Wyndon, hanno salvato il regno sconfiggendo il padre abate Markwart e bandendo la forma terrena del demone, ma il primo dei due è morto per le ferite riportate. Jilseponie (per gli amici Pony) fatica a trovare uno scopo di vita, dopo aver perduto tutto ciò che le era più caro. Decide così di ritirarsi al settentrione, finché un evento catastrofico, la comparsa di un invincibile morbo, la spinge a tornare per salvare il regno dallo sfacelo. Nel frattempo la seguono gli occhi indiscreti dell’odiato Marcalo De’Unnero, il crudele vescovo di Palmaris responsabile della morte di Elbryan... A parte l’iniziale difficoltà, col procedere del racconto le cose diventano più facili. Si scoprono le particolarità del mondo di Corona, le singolarità della religione monoteista degli Abellicani, e si cominciano a tollerare i personaggi dai nomi spesso impronunciabili o ridicoli. Sorge un certo interesse per le vicissitudini narrate tra le pagine, solo che non si scrolla mai di dosso la sensazione che si tratti di una minestra accuratamente diluita. Fa piacere leggere, ma per un romanzo di 568 pagine accadono davvero pochi eventi importanti, per non parlare della risoluzione di un problema così grave come un’epidemia di peste, a dir poco sbrigativa, in cui la sfida tra la protagonista ed il suo nemico giurato è il vero clou, come è tipico di questo genere. La prosa di R.A. Salvatore è scorrevole, non annoia mai, anche quando le scene e i dialoghi sembrano così poco vitali alla trama. È l’opera di un professionista della narrativa, che sa come ravvivare l’attenzione anche quando non c’è niente di cui preoccuparsi. Non me la sento di criticare il suo lavoro in quanto tale: è un buon esempio di letteratura fantasy di massa, un best seller forte della fama dell’autore, che si legge volentieri per passare il tempo e distrarsi un po’ dalla realtà quotidiana che molti avvertono grigia. Al termine di un’esperienza come questa, tendo sempre a dire che il fantasy dovrebbe osare di più. Dovrebbe trasmettere qualcosa d’autentico, convogliare emozioni forti e dar fondo ai mille espedienti che si possono reperire nel vasto calderone della letteratura antica, moderna e contemporanea. Finché continuerà a raccontare per il solo gusto di farlo, sarà annoverato a ragion veduta tra i generi minori.
Inviato il: 9/1/2010 10:10
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CHERUDEK --- di Valerio Evangelisti
Ormai è un anno che leggo libri che possiedo invece che prenderli in biblioteca. Sono in crisi d’astinenza da opere antiche e libri consunti. Però non tutti i regali vengono per nuocere. Cherudek è un romanzo di 486 pagine (in formato tascabile) dello scrittore bolognese Valerio Evangelisti. Sceneggiatore e soggettista per radio, cinema e tv, ha iniziato a cimentarsi con i racconti solo nel 1994, quando ha vinto il premio Urania con Nicolas Eymerich, inquisitore. Il personaggio ha avuto successo e ha dato ispirazione per molti altri romanzi. Cherudek è del 1997 ed è una storia di ambientazione medievale carica di suggestioni ed invenzioni fantastiche. La struttura dei capitoli insegna presto a distinguere un filone principale, collocato nel 1360 in Francia, ed una seconda storia, che avviene in un fantomatico “Tempo zero” simile al presente, ma troppo ricco di incubi e stranezze per essere vero e per non essere legato all’altra vicenda. I capitoli sono talora interrotti da momenti di “Neghentropia”, in cui una misteriosa voce fuori dello spazio e del tempo tenta di spiegare misteri inconcepibili, ma che risulteranno prima o poi abbastanza chiari. La trama principale prevede una nuova pericolosa missione per Nicolas Eymerich, inviato dal papa avignonese Innocenzo III sulle tracce di uno spaventoso esercito di morti resuscitati. Sulla strada per Figeac viene continuamente assalito, rapinato, catturato, inseguito, insidiato da entità demoniache e seguaci del rinato spiritualismo francescano. Il suo sarà un cammino di conoscenza ed azione, in cui imparerà chi è il suo nemico pur dovendo ognora fuggire da lui. Nel frattempo, in una cittadina sperduta, tre gesuiti sorvegliano la comunità, dove succedono fatti inspiegabili e si aggirano personaggi dal passato indeterminato, mentre indizi ed intuizioni li portano a trovare l’accesso ad un mondo parallelo e fantastico chiamato Cherudek. Non sono un amante dei romanzi che insistono nel tenere alta la tensione, quasi che fosse un male concedere al lettore di riporre il libro a fine capitolo senza l’ansia di sapere come continuerà. Cherudek è scritto con questo preciso intento, come molti libri contemporanei, e alle prime battute ciò mi ha dato fastidio. In seguito ho potuto ricredermi, perché Evangelisti, oltre a scrivere fluido ed elegante, senza alcuna sbavatura e con poche proposizioni secondarie, si concentra molto sulla narrazione ed ottiene un risultato fresco e gradito: intrattenere il lettore, trasmettendo a piccole dosi un sacco di informazioni interessanti sul Medioevo e sui temi correlati, ossia gli immancabili Templari, alchimisti, predicatori esaltati, demoni ed inquisitori diabolici. Diciamo che è un’evoluzione della scuola italiana inaugurata da Umberto Eco, un romanzo storicamente ben fondato e dettagliato ma con una spiccata propensione per il fantastico. Spesso si resta sorpresi, si ritiene che quel che accade non sia possibile e ci si domanda se l’autore ci stia prendendo in giro oppure abbia veramente una spiegazione logica per certi fatti. Anche se prevale l’elemento fantastico, la costruzione di Evangelisti è verosimile e alla fine risulta gradevole, pur perdendo di mordente nella parte finale, come quasi sempre accade ai romanzi che tentano di nascondere a lungo qualcosa, in particolare il collegamento tra le due trame Qui non abbiamo la sciatteria e la sfacciataggine di Dan Brown, che per giunta è venuto molto dopo a dire la sua; dietro Cherudek c’è una persona più obiettiva, con uno stile più ragionato e con una capacità di raccontare pari al desiderio di farlo bene. In definitiva, si tratta di un libro che si può consigliare senza remore, anche se non aggiunge granché al bagaglio di chi ha già una buona cultura sul Medioevo.
Inviato il: 9/1/2010 10:12
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UNA STORIA DI AMORE E DI TENEBRA --- di Amos Oz
Non mi piacciono le autobiografie ma sono disposto a concedere che ne esistono di svariati tipi. Quando l’autore è un personaggio famoso che ha deciso di avere qualcosa da dire, si tratti di un premio nobel per la fisica o di un calciatore, raramente il risultato finale incontra il mio gusto. È un libro di carattere informativo, una bella storia tratta dalla vita reale, ma che solitamente si preoccupa di non uscire da binari prefissati. Ci sono però le autobiografie degli scrittori, concepite da menti poetiche ed introspettive per natura, dove non si vede l’intervento di un correttore esterno che ha sfrondato le ramaglie, bensì il talento e la confidenza di un vero artista che osserva se stesso. Non si tratta dunque di un mero racconto per ricordare al mondo quanto si è importanti o memorabili; l’autobiografia diventa un’opera d’arte vera e propria, in cui la realtà è accuratamente filtrata, interpretata ed arricchita di sensi e note ispiratorie. Ho ricevuto questo libro in regalo poco dopo il mio viaggio in Israele, dicembre 2009. Avevo appena cominciato a conoscere il popolo ebraico e Una Storia di Amore e di Tenebra ha contribuito a confermare ed approfondire le mie conoscenze a riguardo. Amos Oz è uno scrittore di discreto successo, non eccessivamente conosciuto in Italia, e nel 2001 ha voluto riassumere la sua genesi di uomo ed intellettuale in un’autobiografia in forma di romanzo, un’opera complessa che comprende le origini della famiglia di Oz (Klausner da parte di padre, Mussmann da parte di madre), la storia della sua infanzia e giovinezza prima a Gerusalemme e poi nel kibbutz di Hulda, l’esistenza tragica dei suoi genitori, una descrizione epica della Gerusalemme di allora, di Tel Aviv che ne è il rovescio, negli anni trenta, quaranta e cinquanta. La narrazione si muove avanti e indietro nel tempo, scavando in centoventi anni di storia familiare, una saga di amore e odio verso l’Europa, che vede come protagonisti quattro generazioni di sognatori, studiosi, uomini d’affari falliti e poeti egocentrici, riformatori del mondo, impenitenti donnaioli e pecore nere. Questa vasta galleria di personaggi mette a punto una sorta di “cocktail genetico” da cui nascerà un figlio unico, nutrito di fantasia, che in un fatale momento di rivelazione, avvenuta attraverso il dolore scioccante e atroce per il suicidio della madre, scoprirà di essere un artista, uno scrittore. La narrazione non è rigidamente lineare, vi sono continui balzi temporali, a seconda di quel che è opportuno spiegare e rammentare. Se devo porre una critica a questo libro è la scarsa cura nell’evitare ripetizioni a breve distanza o di rammentare troppo spesso certi fatti e pensieri, come se il lettore non li ricordasse o lo stesso autore si fosse scordato di averne parlato più che a sufficienza. Comunque mi resta il dubbio che sia intenzionale, un espediente per fissare i passaggi chiave di una vicenda lunga e complessa, che si porta via 628 pagine scritte in piccolo. Trovo che Oz abbia condotto la lucida esplorazione della sua esistenza con una sensibilità ed un afflato poetico senza pari. A conti fatti è stata ricca di situazioni tragiche, nessuna delle quali si è rivelata un passaggio doloroso ma inutile. La ricchezza con cui descrive i familiari, i conoscenti e gli amici è fenomenale, così come è palpitante il racconto della travagliata nascita dello stato d’Israele, nella costante paura di un nuovo genocidio. Trovo che il suo punto di vista sia anche straordinariamente obiettivo, cosa non facile viste le difficoltà che lui e tanti connazionali hanno patito a quell’epoca. Il mio giudizio è assai positivo, anzi, data la sorprendente capacità di questo scrittore non mi sento neppure degno per commentarne lo stile e la levatura morale. Mi limito a dire che ho avuto qualche calo d’interesse nelle prime trecento pagine, perché la storia procedeva un po’ a rilento e non intuivo quale fosse lo scopo di raccontare certe cose. Più avanti il cerchio si è chiuso come era previsto e ne è risultata un’opera letteraria affascinante e coinvolgente, cosa che raramente un’autobiografia si rivela, almeno per me.
Inviato il: 27/3/2010 12:36
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LA LUCE DI ORIONE --- di Valerio Evangelisti
Tre mesi fa mi è stato donato Cherudek e, pur non tessendone entusiastiche lodi, ho ammesso che mi aveva fatto piacere leggerlo. Nel 2007 l’autore ha ormai dieci anni di romanzi alle spalle e ha affinato lo stile per riproporre gli stessi ingredienti in una veste leggermente diversa, in cui i dettagli sono disseminati ad arte per nascondere il solito filo conduttore. È l’impressione che si ricava dalla lettura de La Luce di Orione, ad oggi l’ultimo romanzo con protagonista l’inquisitore Nicolas Eymerich, il personaggio di maggior successo inventato da Evangelisti. Il tempo è trascorso nei romanzi così come nella vita reale: Urbano V siede sul soglio pontificio di Avignone e per qualche strana ragione la fortuna di padre Eymerich, inquisitore generale del regno d’Aragona, sembra giunta al termine. Inviato in esilio a Gerona, il domenicano ci mette poco a trovare una pista fatta di simboli, presagi e visioni, che lo conduce dalla Spagna a Padova, dove incontra Francesco Petrarca, indi a Venezia dove parte con la quinta crociata guidata da Amedeo di Savoia, volta a soccorrere Costantinopoli assediata dai Turchi ottomani. La spedizione, che ha finalità temporali assai più rilevanti di quelle spirituali, si trasforma in un pretesto per portare Eymerich nella capitale dell’Impero d’Oriente, dove la sua presenza è richiesta per combattere nemici di natura assai meno mondana dei musulmani. In verità, la crociata si rivela un pretesto per Evangelisti, che può attingere alla storia, agli usi e alle leggende di un ambiente medioevale greco-ortodosso, del tutto diverso da quello sfruttato in altri suoi libri. Con l’attenzione e l’essenzialità che gli sono proprie, inserisce in poco spazio (344 pagine piuttosto rade) un’encomiabile quantità di informazioni storiche e culturali, riferite ad una zona geografica di cui non si suole approfondire i dettagli storici. La decadenza di Costantinopoli, minacciata dai Turchi e dissanguata dalle Repubbliche Marinare, trova una degna rappresentazione, sintetica ed efficace, nonostante qualche dettaglio inutilmente scabroso. Se penso alla brevità de La Luce di Orione, ammiro la naturale propensione dell’autore a farsi divulgatore storico. Eppure ci sono tante cose che non vanno. A volte è solo il mio gusto personale ad essere deluso, ad esempio dalla profusione di personaggi caricaturali e dalle maniere colorite, quasi che Eymerich debba apparire per forza come l’unico uomo saggio, capace di azioni risolutive. Le altre figure sono o dei fessacchiotti mascherati (il patriarca Philoteos, Maria Kantakouzene, Demetrios Kydones, Fra Bartolomeo) o tizi dai modi assai sconvenienti (Francesco Gattilusio, la principessa Irene, il principe Andronikos, l’eunuco Arsenios). Da questa folla di caricature emerge frate Pedro Bagueny, assistente di Eymerich ed alter ego del lettore, visto che dice e pensa esattamente come farebbe il lettore se fosse al suo posto. La sua presenza nella storia serve a creare empatia e ci riesce bene. La pecca principale sta, secondo me, nella trama; il mistero da svelare è grossolano ed in ultima istanza poco credibile. Soprattutto non si riesce a capire perché tutti sappiano la verità tranne Eymerich, perché chiedano il suo aiuto per poi ostacolarlo, perché sembrino dei pazzi furiosi che insistono nelle loro pratiche abominevoli contro ogni raziocinio. Il più grande punto di domanda è però la trama parallela. Si tratta di una storia telegrafica in un futuro strampalato, in cui una guerra totale oppone delle mega-federazioni di stati in un Iraq “mai pacificato”, mentre altrove ad un genio incompreso di nome Frullifer (!) è concesso di creare una supernova in laboratorio e nel contempo scatenarne altre per empatia cosmica. Non so se sia più incredibile il fatto che questa storia non abbia alcuna utilità nell’economia del libro, se non di spezzare la narrazione e creare inutili attese, oppure che nel 2007 si continui ad immaginare un futuro dove la Cina non ha un ruolo. Credo che uno scrittore maturo debba migliorare la qualità dei suoi racconti, non il numero degli stessi. Dopo La Luce di Orione ho qualche dubbio su quel che Valerio Evangelisti continuerà a proporre. Un libro divertente, anche curato, ma privo di eleganza e raffinatezza creativa.
Inviato il: 21/4/2010 19:12
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