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L'AMANTE DI LADY CHATTERLEY --- di David Herbert Lawrence
Tra tante opere meritevoli della letteratura inglese il caso mi ha fatto scegliere L’amante di Lady Chatterley. Si tratta di un romanzo molto popolare, uno dei classici del Novecento e allo stesso tempo radicalmente diverso da altre opere famose e fortunate. Molti lo hanno letto, come testimonia la copia sgualcita che ho reperito in biblioteca, ma ho seri dubbi che tutti l’abbiano compreso correttamente. L’incertezza si estende anche a me stesso, imperfetto conoscitore dell’animo umano. David Herbert Lawrence pubblicò la sua opera più famosa nel 1928, suscitando un nugolo di polemiche e censure. Le 376 pagine riportano la storia dell’amore proibito tra Lady Chatterley, moglie di Sir Clifford, e il guardiacaccia della loro tenuta, Oliver Mellors. Il nome di battesimo della nobildonna è Constance Reid e proviene da una famiglia di intellettuali aperti alle novità del secolo, mentre il marito Clifford è un rappresentante della nobiltà terriera inglese, legato alle antiche convenienze e molto orgoglioso. Quando viene ferito in battaglia e resta paralizzato alle gambe, Clifford si chiude prima in un isolamento intellettuale, poi si getta a capofitto nell’amministrazione delle sue proprietà, in particolare le miniere di carbone di Tevershall. Connie vive il suo esilio dorato con grande sofferenza, disgustata dal vuoto spirituale che la circonda. Si scopre istintivamente attratta dal guardiacaccia e ben presto i due cominciano a frequentarsi, raggiungendo una comunione di corpo e spirito che non credevano possibile. Il loro amore diventa una sfida a tutte le convenzioni e logiche sociali, dominate dal denaro e responsabili della crisi spirituale del Novecento. Se qualcuno lo vuole vedere come un libro osé, scritto per stuzzicare i bassi istinti dei lettori, credo che abbia completamente sbagliato prospettiva. La storia di Lady Chatterley è carica di simbolismo ed impregnata di critica sociale, a tratti confusa, ma globalmente azzeccata ed attuale. Non c’è nulla di volgare nella descrizione dell’atto amoroso fornita da Lawrence, che non vuole dare in pasto al pubblico l’intimità tra uomo e donna, bensì caricarla di un senso nuovo, al passo coi tempi, dove natura e spiritualità si fondono per creare qualcosa di irripetibile. Sono d’accordo con il pensiero di Lawrence e mi sorprende che un secolo fa la società fosse afflitta dai medesimi problemi di oggi: intellettualismi fini a se stessi, ricerca sfrenata del denaro e del divertimento tratto dalla spesa, sessualità relegata ad atto fisico ed imbarazzante e convenzioni sociali che soffocano la felicità individuale. L’autore riesce a presentare una serie di riflessioni taglienti e che non annoiano, perché inserite in una trama che non consente cali d’interesse. Lo stile è impeccabile, chiaro e perfettamente leggibile, il che spiega il successo del romanzo più della sua tematica falsamente scabrosa. C’è una bella differenza con le opere del XX secolo, in buona parte votate all’artificiosa ricerca dell’originalità, generalmente tradottasi nella descrizione puntigliosa del malessere e della nevrosi causata dalla società industriale. L’amante di Lady Chatterley non vuole soltanto documentare la sua epoca ma anche proporre una ricetta di salvezza, che può essere riassunta dalle parole dello stesso Lawrence: “la vita è sopportabile solo quando lo spirito e il corpo vivano in armonia, e l’uno abbia per l’altro un naturale rispetto”. Pur non essendo breve non annoia, è scorrevolissimo e riesce ad appassionare anche se non ospita una gran quantità di eventi. È una lettura che consiglio perché offre materiale su cui pensare senza rendere triste il lettore, come invece capita spesso coi libri del Novecento.
Inviato il: 8/3/2008 18:28
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IL SERPENTE PIUMATO --- di David Herbert Lawrence
Incoraggiato dalla piacevole esperienza avuta con L’amante di Lady Chatterley mi sono impegnato a leggere quest’altro romanzo di D.H. Lawrence, che è unanimemente giudicato il capolavoro dello scrittore inglese. Non posso che sottoscrivere tale parere, aggiungendo che Il serpente piumato è un romanzo straordinario sotto molti aspetti, sebbene non si possa ritenere del tutto privo di difetti. Pubblicato nel 1925, è la storia di una quarantenne di origini irlandesi e del suo ambivalente approccio con la cultura, le tradizioni e la più intima essenza del Messico. Kate è una donna moderna, abituata ad essere trattata con la stessa dignità degli uomini; è naturale che desideri fuggire davanti ad uno spettacolo barbaro e cruento come una corrida. Il destino incrocia la sua strada con quella dello studioso Ramon Carrasco e del generale Cipriano Viedma. Questi autentici uomini messicani hanno un’aspirazione abbastanza inconsueta: risollevare lo spirito popolare, piegato da un autolesionismo congenito, mediante la rievocazione di culti morti e sepolti. Ramon si presenta come il redivivo dio Quetzalcoatl, il serpente piumato, mentre Cipriano si convince di essere l’incarnazione del dio guerriero Huitzilopotli. Kate è trascinata a viva forza in mezzo a gente che conserva tratti decisamente primitivi, ma che a differenza della decadente civiltà occidentale è ancora in grado di suscitare un turbine di emozioni e sensualità. Nonostante in cuor suo derida le ambizioni e l’operato dei due uomini, Kate è preda del loro fascino magnetico, al punto di unirsi a Cipriano in un cerimonia dal sapore antico. Kate accetta di sposare lo Huitzilopotli vivente, lasciandosi trasformare nella dea Malintzi. Non riesce ad essere totalmente la moglie di Cipriano, perché la sua parte razionale continua ad opporsi, tuttavia non riesce neppure a tornare a casa, accontentandosi della convinzione che il messicano non la lascerà andar via. È una storia narrata con grande lentezza, in cui sono davvero pochi gli eventi che portano avanti la trama. Il contenuto principale de Il serpente piumato non è la vicenda di Kate, o la rinascita del culto di Quetzalcoatl; l’oggetto del romanzo è il Messico, presentato ad un livello di approfondimento eccezionale. La vita quotidiana si disvela in ogni dettaglio ed appare un’esistenza pigra e rassegnata, un velo sotto cui sopravvivono antiche superstizioni. Lawrence è riuscito ad offrire una panoramica senza eguali del grande paese centroamericano, visto da un punto di vista europeo ma con una spiccata attenzione per il comportamento e le credenze dei locali. Lo scrittore si prende tutto il tempo necessario per creare qualche sporadico climax, mantenendo un registro pacato e minuzioso nel descrivere. I dialoghi sono più briosi ed accorati, ma occupano uno spazio limitato. Oltre alla prosa sono presenti gli inni a Quetzalcoatl, da molti giudicati i migliori brani poetici anglosassoni dell’epoca. In italiano non li ho trovati così stimolanti, nonostante l’ottima traduzione di Elio Vittorini. Credo che gli appassionati dell’America Latina non possano perdersi questo romanzo, per nessun motivo. Il grado di immersione nella cultura messicana è fenomenale; a tratti sembra di vedere le donne al mercato, i bambini sulla spiaggia di Sayula o i peones che assistono creduli alle fervide orazioni di Ramon. È un romanzo che tratta con rispetto il tema della sensualità, sottolineando il divario innegabile tra il mondo civilizzato e morente dell’Europa/America del nord e la vitalità latente sotto la sottomissione, l’apatia e la scarsa cura di sé che il popolo messicano dimostra agli occhi dello straniero. L’intelligenza di Kate resta infine piegata da quest’energia segreta, dal mistero che regola i rapporti tra uomo e donna e così tutte le meccaniche sociali di questa grande nazione dal cuore selvaggio. Certamente una riflessione degna di essere letta ed interiorizzata.
Inviato il: 7/5/2008 21:59
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IL ROSSO E IL NERO --- di Stendhal
Il Rosso e il Nero: un romanzo famosissimo, di cui si sente spesso nominare il suggestivo titolo, preso in prestito da molti in biblioteca ma di cui non è scontato conoscere la trama e le tematiche. La lettura mi ha riservato molte sorprese: anzitutto ho scoperto un’opera scritta in maniera eccellente, coinvolgente dalla prima all’ultima pagina; in secondo luogo ho apprezzato il quadro completo e vivace della Francia post-napoleonica; infine, sono stupito che una vicenda priva di autentici risvolti possa risultare tanto appassionante. Stendhal (pseudonimo di Henry Beyle) visse la sua giovinezza ai tempi di Napoleone, al quale sacrificò gli studi tecnici per perseguire la carriera militare nel vittorioso esercito della Francia imperiale. Nel suo capolavoro, scritto tra il 1829 e il 1830, trasuda la nostalgia di un’epoca dove l’entusiasmo era alle stelle, reagendo con una sprezzante critica della nuova società francese, rivolta soprattutto ai nuovi ricchi che si sono fatti una posizione a suon di soprusi e bassezze. Il protagonista è Julien Sorel, figlio di un carpentiere della Franca Contea. Il giovane è di umili origini ma ha delle qualità, scoperte e coltivate dall’anziano curato del paese, l’abate Chélan. Julien entra come precettore nella casa del sindaco e per un certo tempo costituisce motivo d’orgoglio per il notabile, in tacita competizione con monsieur Valenod in quanto ad educazione dei propri figli. L’equilibrio si infrange quando Julien seduce la padrona di casa, la passionale ed accorata Madame de Rênal; quando la tresca è scoperta il giovane è costretto a fuggire ed entra nel seminario di Besançon. In questo luogo di invidie ed emarginazione, Julien si guadagna la stima dell’abate Pirard, il quale lo ricompensa favorendo la sua assunzione presso un nobile parigino, il marchese de la Mole. L’alta società della capitale è ben lontana dalle piccole beghe di provincia, tuttavia Julien continua a guardarsi intorno con occhio clinico e ben presto ottiene il rispetto e la fiducia degli aristocratici. Anche stavolta tutto precipita a causa dell’infatuazione della figlia del marchese, Mathilde, per l’abatino di provincia, uomo ambizioso ed avulso dall’affettazione dei giovani nobili. Quando l’affaire è scoperto il marchese va su tutte le furie, ma è disposto a concedere a Julien e Mathilde il necessario per una vita dignitosa. Sembrerebbero esserci i presupposti per un lieto fine se Madame de Rênal, sotto esortazione del suo confessore, non scrivesse una lettera a sfavore di Julien. Il giovane reagisce con un moto di collera e tenta di uccidere la donna che non aveva mai smesso di amare; non ce la fa, ma in compenso riesce a farsi incolpare di tentato omicidio e a dare all’ipocrita Valenod la soddisfazione di vederlo sulla ghigliottina. La storia è narrata in maniera eccellente, caricata di tensione per mezzo delle lunghe ed affascinanti considerazioni del protagonista, il quale non trova il successo e le grandi azioni che sogna perché è un talento nato nell’epoca sbagliata, nel ceto sociale sbagliato. Il Rosso e il Nerorappresenta efficacemente la Restaurazione in Francia, gli strascichi della Rivoluzione e del bonapartismo, la ricostituzione di una nobiltà fiacca e modaiola, il rinato potere del clero secolarizzato e, soprattutto, l’ascesa della borghesia, vista con estremo disprezzo dall’autore. Come Julien Sorel, anche Stendhal è deluso dallo stato attuale delle cose, da una società che sembra rifiutare l’eredità dei giacobini e di Napoleone; sceglie così di stigmatizzare i vizi di tutti gli strati sociali, dall’avarizia del piccolo popolo, definita “esagerato concetto della malvagità degli uomini”, alla mistificazione vigente negli ambienti altolocati, schiavi dell’apparenza e timorosi di nuovi sussulti rivoluzionari. Si tratta di una testimonianza importante, veicolata nel modo più accattivante, grazie ad un intreccio dove non mancano i colpi di scena. La suprema scorrevolezza del testo renderà le 540 pagine leggere come una piuma; una ragione in più per riscoprire Il Rosso e il Nero, un libro baciato dal successo che meriterebbe qualcosa in più dell’astratto riconoscimento del suo valore. Meriterebbe di essere letto fin dai tempi della scuola.
Inviato il: 29/5/2008 21:10
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L'OMBRA DI MAO --- di Federico Rampini
Premetto che non amo i testi a carattere informativo. La capacità di raccontare le esperienze personali e di interpretarle alla luce del contesto storico e politico richiede una grande abilità nel cercare le situazione, una confidenza pressoché perfetta con la realtà studiata e una notevole propensione ad informarsi. Federico Rampini possiede tutte queste doti, unite ad uno stile piano e gradevole, e il materiale che propone è interessante per chiunque si trovi a fare i conti con quel gigante ancora sconosciuto che è la Repubblica Popolare Cinese. Tuttavia trovo più facile comprendere la Cina attraverso il Milione di Marco Polo che grazie alle sue pubblicazioni. Giornalista affermato da quasi trent’anni, Rampini è autore di diversi libri e negli ultimi anni ha spostato il suo interesse dove è rivolto quello del mondo intero: verso l’Estremo Oriente. Nel 2006 ha scritto L’Impero di Cindia, best-seller che ha contribuito non poco a svegliare i dormienti italiani che ancora non sapevano o non volevano credere. Con L’Ombra di Mao l’autore tenta un difficile viaggio a ritroso, la ricostruzione della travagliata genesi della superpotenza cinese, partendo dalla figura del leader assoluto del Partito Comunista: Mao Zedong. Che personaggio era Mao? Come si è evoluta la sua figura nella storia? Quali sono le eredità da lui affidate alla Cina moderna? La tesi di Rampini è chiara e perfettamente condivisibile: la Cina sotto Mao ha passato un periodo di sconvolgimenti sociali, di soprusi etnici, di crude repressioni del dissenso, passando dai periodi di carestia conseguenti il Grande Balzo all’iconoclastia della Rivoluzione Culturale. La Cina di oggi è divenuta in poco tempo la seconda economia mondiale perché i successori di Mao hanno deciso di dare un taglio netto con le rigide politiche dettate dall’ideologia. La sua società è in rapido sviluppo, tende all’occidentalizzazione, sorprende realizzando colossali opere pubbliche in tempi da record e si prepara, da qui a trent’anni, a superare gli Stati Uniti (io credo che ciò avverrà molto prima). Tuttavia la Cina è anche piena di contraddizioni: le zone rurali sottosviluppate contrapposte alle grandi metropoli come Pechino e Shanghai; i disastri ambientali dovuti all’inquinamento e allo sfruttamento dissennato delle risorse idriche; il genocidio culturale in Tibet; l’appoggio incondizionato ai regimi totalitari di tutto l’Oriente. Ad ogni modo, il paradosso più evidente è la persistenza di un regime autoritario, governato da un partito unico a struttura gerarchica, in un paese che ha scelto la strada del capitalismo più competitivo. Ecco perché i potenti cinesi non hanno attuato una doverosa demaoizzazione ed hanno risposto coi cannoni alle proteste di Piazza Tienanmen: non si può cancellare l’ombra di Mao, il suo carisma, il suo ruolo chiave nella lotta di resistenza contro i nazionalisti di Chiang Kai Shek e gli invasori giapponesi. Mao è il padre della patria e l’opinione ufficiale è questa: “Mao ha fatto il 70% di cose buone e il 30% di cose cattive”. Nonostante le sofferenze patite tra gli anni Cinquanta e Settanta, il popolo cinese conserva un affetto per il defunto leader che non può essere spiegato solo con la propaganda. Rampini presenta davvero molti esempi di cittadini che ne hanno passate di tutti i colori e che oggi si contentano di dire che stavano meglio di quando erano giovani. Tutte le persone sparite nei gulag, torturate e assassinate sono un ricordo del passato che tutti cercano di cancellare. Trovo efficace soprattutto la sezione in cui il giornalista presenta le opinioni sconclusionate e partigiane dell’intellighenzia di sinistra che negli anni Sessanta si sforzava di presentare all’Europa una Cina Maoista simile ad un paradiso, mentre era un paese tremendamente povero ed arretrato. Questa parte, presentata con brio ma anche con un certo distacco emotivo, mi ha fatto davvero indignare: ma come potevano degli eminenti scrittori, pensatori e giornalisti fare l’apologia di un regime che invitava solo i simpatizzanti e faceva loro vedere quello che gli stava bene? Del resto è un monito che vale anche oggi, sebbene i tempi siano molto cambiati. Un libro che non avrei mai letto di mia spontanea iniziativa, L’Ombra di Mao è una buona lettura per informarsi un po’ sulla recente storia della Cina. Purtroppo denota anche una struttura lacunosa, in cui si avverte la carenza di materiale e testimonianze autentiche sul vero passato cinese. Federico Rampini ha viaggiato molto, intervistato molta gente e letto molti libri, eppure il suo libro sfiora solo alla lontana la verità sulla Cina maoista. Forse è un segreto che tra qualche decennio nessuno sarà più in grado di svelare, così Mao continuerà ad essere l’unico dittatore del Novecento che non sia stato messo alla berlina dopo morto.
Inviato il: 5/6/2008 20:58
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Di idee morali non ce ne son più, oggi; e quel ch’è peggio, pare che non ne siano mai esistite. Sono scomparse, inghiottite sin nei loro più piccoli significati... Da L'adolescente di F.Dostoevskij |
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LE ANIME MORTE --- di Nikolaj V. Gogol
Ho rimandato a lungo la lettura de Le Anime Morte, perché possedendo il libro non c’era tutta questa fretta d’incominciare. In verità, chi vuole conoscere le radici della letteratura russa dell’XIX secolo, autentica miniera di capolavori immortali, farebbe bene ad iniziare dalle opere di Gogol e da quelle del suo amico A. Puškin. Il loro lavoro getta le basi per una stagione di autori formidabili, capaci di condensare su carta l’anima di una nazione gigantesca e a sé stante come la Russia. Gogol parte da una trovata singolare e la sfrutta per raccontare a fondo la campagna russa e le sue figure caratteristiche. Il protagonista è Pavel Ivanovic Cicikov, un ex impiegato della gigantesca macchina burocratica zarista, ben determinato a fare il grande salto verso una vita più agiata. Il sistema con cui intende procacciarsi il denaro è abbastanza curioso: egli acquista dai proprietari terrieri i contadini che sono morti dopo l’ultimo censimento, i quali risultano ancora vivi per il fisco e continuano a gravare sui padroni. Cicikov intende ammassare a prezzi stracciati un buon numero di queste “anime morte” per poter richiedere un ingente prestito e svignarsela. Nella Russia dell’epoca simili espedienti erano all’ordine del giorno e costituivano uno dei tanti aspetti negativi della società che Gogol vuole rappresentare e criticare. L’opera è rimasta incompiuta e consta di un primo libro di 250 pagine, più un centinaio di pagine di frammenti. Nella parte felicemente completata l’autore ritrae in maniera acuta e precisa i difetti e le miserie dell’uomo russo, avvalendosi di personaggi così ben caratterizzati che sembra di vederli in carne ed ossa. Davvero indimenticabili le figure dei proprietari terrieri: l’accomodante Manilov, l’astuto Sobakevic, l’ambiguo Nozdriov, l’ingenua Korobocka e il taccagno Pliuškin. Dal secondo libro in poi, Gogol avrebbe desiderato mostrare le virtù della sua gente, tuttavia il tentativo fallì e lo stesso scrittore bruciò il manoscritto, di cui restano solo piccoli brani ricavati dai suoi appunti. Pur contenendo alcuni passaggi deliziosi, all’altezza della prima parte, l’assenza di continuità narrativa rende questo materiale poco appetibile per un lettore senza interesse filologico. Evidentemente la vena creativa si era esaurita oppure, come lo stesso Gogol afferma, non era possibile trovare nella società del tempo virtù sufficienti a costruire un romanzo. Sia come sia, Le anime morte è un capolavoro mancato, un viaggio coinvolgente ed approfondito nella Russia rurale al tempo degli zar. La prosa è ricca, briosa, traboccante il sentimento e la forza espressiva di chi ha visto con i propri occhi luoghi e persone molto simili a quelle create dalla sua fantasia. La lettura scorre così piacevolmente che dispiace che un simile avvio non porti da nessuna parte. Pur non avendo trovato una conclusione ed una forma coesa, la vicenda di Cicikov trasporta il lettore nelle campagne, terre di contadini fannulloni ed ubriaconi, di padroni pigri e solitari come orsi, di piccole città dove un pettegolezzo infondato finisce sulla bocca di tutti. Anni dopo scrittori illustri e geniali come Dostoevskij impugnarono l’opera di Gogol per inaugurare la nuova età dell’oro della letteratura russa, quella in cui il romanzo raccontava un’intera nazione e ne esplorava la mente, il cuore, le usanze nuove ed antiche. Il tutto senza dimenticare che il lettore vuole divertimento e stimoli per migliorare la propria individualità.
Inviato il: 13/7/2008 17:05
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ADOLESCENTE (L’) --- di Fëdor Dostoevskij
L’adolescente era l’ultimo grande romanzo di Dostoevskij che mi restava da leggere e ho scelto, invero poco felicemente, di eleggerlo a lettura principale dell’estate 2008. La complessità delle vicende, le frequenti divagazioni e lo scarso accento posto sul principale nucleo tematico mi hanno impedito di gustare pienamente questo capolavoro, complice il fatto che molti capitoli sono stati sfogliati in spiaggia od in vacanza. Scritto nel 1875, esso fa parte del grande progetto letterario dell’autore, mai portato a compimento e ricordato col nome di Vita di un grande peccatore. Forte della sua spiccata sensibilità sociale, Dostoevskij presenta sotto un’altra forma il problema della libertà umana. In Delitto e castigo Raskolnikov tenta di affermare la propria indipendenza attraverso un omicidio; ne I demoni Stavrogin vuole farlo tramite il sovvertimento dell’ordine costituito; ne L’adolescente il protagonista Arkadij Makarovič Dolgorukij vuole imporsi al prossimo con i soldi. Figlio naturale del possidente Versilov, egli risulta legalmente figlio di Makar Ivanovič, un vecchio servo della gleba cui il signore ha temporaneamente preso in prestito la giovane moglie. Arkadij viene allontanato e per anni non vede i propri genitori, fino al giorno in cui, ormai più che adolescente, è richiamato dal padre a Pietroburgo con la promessa di un impiego. Il figlio ritrova così la famiglia che non aveva mai avuto, instaura rapporti con Versilov, con la madre Sonja e la sorella Lisa, con Makar Ivanovic; scopre che i suoi cari si trovano in ristrettezze economiche, ma Versilov è impegnato in un vivace contenzioso per una cospicua eredità. Arkadij ha un chiodo fisso: vuole diventare ricco come un Rothschild e riscattare la sua umiliante condizione sociale, tuttavia la sua “idea” trova numerosi ostacoli nella sua realizzazione. Il principale problema è la sua mancanza di volontà, che gli impedisce di compiere il male a proprio vantaggio, ad esempio di sfruttare una lettera per ricattare Versilov. A causa del compromettente documento si trova invischiato in complesse macchinazioni, alle quali rifiuta di prendere parte e che finisce per subire, sconfessando i suoi stessi propositi. Non è facile riassumere l’intreccio di questo romanzo. È un ampio collage di pensieri, che si traducono in eventi imprevedibili. Questa discontinuità tra pensiero ed azione rende la lettura più impegnativa che in altri romanzi dostoevskijani. Ciò dipende molto dal protagonista, un giovane velleitario e restio all’azione, ma soprattutto dalla vastissima pluralità dei temi trattati. Accanto ad un articolato ragionamento sul potere corruttore del denaro, la storia di Arkadij si svolge in mezzo a complessi rapporti familiari e sociali, portati avanti da personaggi eterogenei ed emblematici. Dostoevskij ama inserire figure dalle caratteristiche ricorrenti, soprattutto nei suoi ultimi lavori: il giovane in evoluzione (Arkadij), l’uomo positivo e spiritualmente illuminato (Makar Ivanovič), l’uomo ispirato e traviato dalle grandi idee (Versilov), l’intellettuale politico (Kraft, Dergačjov) e l’approfittatore (Lambert). Sebbene la vicenda non mi sia parsa avvincente come quelle de I Fratelli Karamazov o de L’idiota, anche quest’opera mi ha stupito per la profonda analisi della società russa del tempo, sorprendentemente proiettata verso i rapporti con l’Europa. Lo scrittore possiede un’innata capacità di scavare nel sociale, di mettere in bocca ai suoi personaggi frasi eloquenti e ricche di insegnamenti, o meglio, di dilemmi su cui riflettere. I problemi di oggi non sono troppo diversi da quelli di allora; il denaro è divenuto l’unico mezzo di riscatto sociale, la famiglia è un’entità sempre più indistinta, le grandi idee sono fonte di confusione e cattivi propositi. Dostoevskij pone problemi attuali e lo fa con una prosa ricca eppure scorrevole. L’adolescente conta 760 pagine e non è un romanzo che consiglierei a cuor leggero, ma, in virtù dell’importanza acquisita nella produzione dostoevskijana, è un tassello essenziale per chi mira a ricevere un quadro completo del pensiero del grande scrittore russo.
Inviato il: 16/9/2008 20:39
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LA CERTOSA DI PARMA --- di Stendhal
Nel secolo XIX gli intellettuali e gli artisti erano soliti trascorrere lunghi periodi viaggiando per l’Europa, impegnati a contemplare la ricca varietà di ambienti naturali e sociali. È proprio da un simile viaggio che Stendhal (Henry Beyle) trasse l’idea per un altro grande romanzo: La Certosa di Parma. In un manoscritto di cronache italiane lo scrittore scoprì la narrazione romanzesca della giovinezza di Alessandro Farnese, papa Paolo III, salito al soglio pontificio dopo anni di intrighi e situazioni scabrose. Sono proprio l’impeto giovanile, la freschezza delle idee ingenue e l’energia vitale che pervadono il protagonista di questa lunga vicenda (640 pagine). L’eroe di turno è Fabrizio del Dongo, figlio cadetto di un marchese lombardo. Ancora diciassettenne il giovane mostra entusiasmo per il personaggio di Napoleone, al punto di fuggire in Francia per partecipare sotto mentite spoglie alla battaglia di Waterloo. Ovviamente corre il rischio di essere ucciso od imprigionato, tuttavia i suoi guai iniziano al ritorno a casa. Rinnegato dal padre e dal fratello, egli è costretto a fuggire; grazie all’appoggio dell’influente zia, la duchessa Sanseverina, e del conte Mosca, ministro del principe Ranuccio Ernesto IV, Fabrizio trova rifugio alla corte di Parma, allora stato indipendente. Il giovane frequenta i migliori seminari d’Italia e si mette in luce per zelo e capacità, al punto di essere designato come primo vicario dell’arcivescovo Landriani. Egli non ha però la testa sulle spalle: nei suoi viaggi s’innamora di Mariettina, un’attrice di teatro, e si attira le ire del suo protettore Giletti. Per un malaugurato caso, Fabrizio si imbatte in Giletti ed ingaggia un combattimento con lui, uccidendolo. In seguito a questo omicidio il malcapitato è costretto ad una lunga fuga, che si conclude con il suo arresto e la segregazione nella Torre Farnese a Parma. Purtroppo egli è l’ago della bilancia della corte di Ranuccio IV; la sua condanna a morte, o il suo avvelenamento, sarebbero un bel colpo al prestigio dei suoi protettori. In prigione egli si innamora di Clelia Conti, figlia di un generale e promessa sposa ad un marchese tra i più illustri di Parma. La storia si conclude con Fabrizio che viene fatto fuggire ed è infine prosciolto da Ranuccio V, successo al defunto padre. Non riuscirà però a diventare arcivescovo, né a trovare la felicità con Clelia, con la quale concepisce un bambino che sarà la rovina di entrambi. L’inizio di questo libro è folgorante, movimentato e ricco di colpi di scena. Poi c’è una lunga pausa, circa duecento pagine in cui non succede granché, quindi una lunga tirata di avvenimenti e grandi nuclei tematici che persiste fino alla conclusione. I momenti morti sono l’unica difficoltà che il lettore può incontrare, perché La Certosa di Parma è un libro globalmente equilibrato, divertente e coinvolgente sia per gli avvenimenti che per il panorama storico. Ciò che può attirare il pubblico, soprattutto quello nostrano, è l’approfondita presentazione dell’Italia tra Restaurazione e Risorgimento. Lo stivale era una miriade di staterelli in mano a governi dispotici, dove le sottili dinamiche tra fazioni cortigiane costituivano lo snodo della vita delle grandi città. Come è tipico di Stendhal, i personaggi altolocati sono presentati con un occhio di riguardo, mentre c’è un malcelato disprezzo per i nuovi potenti come il fiscale Rassi. È curioso vedere questa società del passato attraverso gli occhi di uno straniero, un francese, la cui mentalità era certamente all’avanguardia rispetto alla media italiana dell’epoca. Lo stile di scrittura è elaborato ma non eccessivo, molto realistico nel riportare dialoghi, pensieri e descrizioni. Ogni tanto ci sono parti narrative prolungate, in cui sono riassunti lunghi lassi di tempo ed i fatti si snocciolano a profusione; è qui che l’attenzione tende a scemare. A prescindere da queste lungaggini un po’ pesanti da digerire, non posso che giudicare positiva ed istruttiva la lettura di questo romanzo storico, accuratamente contestualizzato e brulicante di immagini e personaggi indimenticabili, forse perché sono dirette proiezioni di uomini e donne storicamente identificabili. Un’opera magistrale di questo grande scrittore francese.
Inviato il: 24/9/2008 22:48
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TRE METRI SOPRA IL CIELO --- di Federico Moccia
Senza falsa modestia, posso dire di essere un lettore molto paziente, in grado di affrontare qualunque tipo di libro senza paura di mollare la lettura a metà. Siccome ho qualche flebile intenzione di diventare un giorno uno scrittore, ho voluto prendere in esame un autore che negli ultimi anni ha riscosso un notevole successo, soprattutto presso i giovani: Federico Moccia. Tre metri sopra il cielo è il romanzo d’esordio di questo prolifico individuo, assurto in pochi anni alla dignità di mito giovanile ed acclamato dagli adolescenti di tutta Italia. Su questo suo primo lavoro girano strane voci: esso sarebbe circolato per anni a Roma in fotocopia, passato di mano in mano come un moderno vangelo. Questa mirabile opera della letteratura italiana narra la fugace storia d’amore di due giovanissimi della capitale: Stefano (Step) e Babi. Babi è una brava studentessa, il classico tipo che studia quanto basta per avere tutto il tempo di divertirsi, contentando genitori e docenti. Step è uno sbandato, un ragazzo violento che trascorre le giornate tra la palestra ed i bar, facendo quello che gli pare senza rispettare nulla e nessuno. Naturalmente egli non è malvagio per vocazione; ha subito alcuni brutti traumi (ah?) ed un bel giorno ha deciso di trasformarsi in un teppista. Questo non gli impedisce di far colpo su Babi, di vincere le sue naturali reticenze e di trascinarla nella sua nefasta cerchia di amici, dove la ragazza finisce per fare bravate degne di Step, con grande cruccio per la famiglia. Beh, a che pro continuare il riassunto? La trama è banale al punto di essere ridicola, è esattamente quello che ci si aspetta quando si sentono strombazzare le parole “romanticismo” ed “adolescenza”. La piattezza della prosa di Moccia è quasi volgare: è fatta di frasi principali imprigionate da orribili punti fermi, di descrizioni adornate da qualche semplicistica metafora, di dialoghi scarni e spesso irritanti. L’esplicita citazione di marche famose (vestiti, birre, auto, locali romani, ecc...) è così insistente da rivoltare le viscere. Questa specie di trascrizione della vita reale, in tutta la sua banalità, è davvero ciò che il pubblico di massa richiede? Non proprio, infatti il nucleo di Tre metri sopra il cielo è una vicenda dove lo straordinario diventa la normalità, a partire dai personaggi. Step fa sbaccanare: come si può avere muscoli d’acciaio a 19 anni, mangiando e bevendo a piacimento, darle a tutti ed essere comunque un bello dannato che vince sempre? Per essere tale serve una vita regolare ed anni di ascetica attività in palestra. Claudio, il padre di Babi, è il solito adulto mai cresciuto imbrigliato da una moglie tirannica. Desolante. Paolo, fratello di Step, è una specie di ameba, mentre la sorella di Babi, Daniela, è l’apoteosi dell’imbecillità. La cricca di insopportabili compagni del ragazzo è macchiettistica quanto le compagne di Babi. La ragazza è l’unico personaggio genuino, in cui un’adolescente potrebbe immedesimarsi. La sua incoerenza, le sue fughe e la sfuriata contro la madre autoritaria, sono tipiche di una ragazza della sua età, anche se le sue avventure hanno del prodigioso. Il finale è un guazzabuglio di eventi caotici, simili ad appunti rabberciati per concludere il libro in fretta e furia. Personaggi che muoiono, amori che finiscono, altri che iniziano, processi che si concludono con discutibili assoluzioni, pestaggi, eclatanti confidenze, assurdità. Trenta pagine di autentico squallore letterario. Al termine di questo coraggioso esperimento, che non mi pento di aver compiuto, posso solo dire di essere al di sopra dell’età massima e al di sotto della stupidità minima per apprezzare un libro di Federico Moccia. Questo mi sconforta, perché conferma i miei timori: non si aspira ad analizzare la realtà o ad affrontare i veri problemi della vita. Si preferisce edulcorare tutto con false emozioni, illusioni giovanili e fantasie senza né arte né parte. Spero che la gioventù di Roma non sia poi così idiota e sbandata come quella descritta in questo libro; in caso contrario sono contento di non essere cresciuto da quelle parti. Ad ogni modo, se un libercolo scritto in modo così approssimativo, al di là dei fugaci contenuti, può diventare un best-seller e perfino un film di successo, vuol dire che il pubblico medio italiano è di bassa qualità.
Inviato il: 8/10/2008 0:18
Ultima modifica di Gurgaz il 9/10/2008 11:21:50
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MEMORIE DAL SOTTOSUOLO --- di Fëdor Dostoevskij
Chi ha letto almeno un romanzo di Dostoevskij ha percepito sicuramente la ricchezza e la complessità ideologica di questo eccezionale scrittore russo, il suo amore per la spiritualità e per il pensiero metafisico. Tuttavia c’è solo un’opera in cui l’autore ha condensato il proprio pensiero, che non è troppo distante dal concetto di “filosofia”: Memorie dal Sottosuolo. Nel 1864 Dostoevskij attraversò l’ennesimo periodo di crisi, caratterizzato da tragedie familiari e ristrettezze economiche. In tal clima concepì questo breve racconto, in contrapposizione ad un’opera di carattere socialista (Che fare? di N.G. Černyševskij). Il protagonista di Memorie dal Sottosuolo è un uomo qualunque, tipicamente russo, preda di intense lacerazioni interiori che gli impediscono di compiere il bene anche quando lo vorrebbe. In una prima parte costui racconta il suo stile di vita ed intesse un’accesa quanto impietosa critica dei costumi sociali, affermando la propria individualità. Nella seconda parte vengono presentati alcuni eventi esemplificativi: un pranzo tra amici risoltosi in lite e l’incontro con una giovane donna, prima affascinata con discorsi intelligenti e poi abbandonata in malo modo. Sono solo 200 pagine scritte in grossi caratteri, ma possono rivelarsi piuttosto dure se prese alla leggera. Innanzi tutto è importante capire che cosa vuole presentare Dostoevskij: non sono le memorie di un pazzo alienato, nonostante la deformazione degli eventi e l’eccessiva tragicità che permea il testo, bensì un tentativo di portare alla luce il “sottosuolo”, ovvero la parte più intima ed irrazionale del carattere umano. L’autore era convinto che ciascun uomo possieda un’individualità cui non è disposto a rinunciare, in nome delle consuetudini o di classificazioni artificiali come quelle del socialismo. Però questo porta al contrasto con gli altri, a sofferenze ed autopunizioni, perché c’è la coscienza del bene ma è accompagnata da una triste verità: l’impossibilità di raggiungerlo. Secondo Dostoevskij tutti gli uomini, in fondo, sono infelici allo stesso modo, quindi non vale la pena di tentare faticosi ed alienanti sistemi di correzione. Nel suo ciclo di romanzi chiamato Vita di un grande peccatore, in particolare ne I fratelli Karamazov, egli ha fatto seguire le sue risposte a questo problema di difficile soluzione. Oggi l’umanità sta procedendo verso l’uniformità del pensiero, che passa attraverso l’omologazione dei bisogni materiali. Gran parte delle persone tiene nascosta la propria individualità e cerca di apparire conforme a tutte le consuetudini, dall’atteggiamento in pubblico ed in privato, al modo di vestire, di mangiare, di divertirsi e di soffrire. Persino la sofferenza ha i suoi standard. Un libro come Memorie dal Sottosuolo è in piena controtendenza e costituisce un’eccezione alla regola che è meglio nascondere e dimenticare. Invece io ritengo che ciascuno di noi, se fa attenzione e si costringe, per un attimo, ad abbandonare i soliti schemi di ragionamento, può sentire dentro di sé tormenti simili a quelli del protagonista. La convivenza tra uomini non è semplice e ha un prezzo alto: il rinnegamento di se stessi e la rinuncia al concetto di bene universale. Se non ci è proprio possibile conservare il nostro modo di essere e sopravvivere a questo mondo, è fondamentale averne almeno la consapevolezza, per essere persone autentiche e non somigliare alle macchine. La prosa non è piana e leggibile come nella rimanente produzione letteraria dello scrittore russo. I periodi sono spezzati, convulsi, e riproducono realisticamente il diario di un uomo non abituato a scrivere e sconvolto da terribili inquietudini. I toni sono spesso esagerati ed è evidente che il narratore ha distorto o mal interpretato gli eventi che racconta. Questo approccio può essere un ostacolo per chi non conosce Dostoevskij e non è abituato ad un certo tipo di letteratura, perciò consiglierei la lettura delle Memorie solo a chi è già familiare con le tematiche.
Inviato il: 25/10/2008 16:03
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UMILIATI E OFFESI --- di Fëdor Dostoevskij
Vale proprio la pena di leggere tutti i romanzi di Dostoevskij. Sono giunto a questa conclusione dopo la lettura di Umiliati e offesi, opera minore che precede la maturità letteraria dello scrittore, ma non per questo priva di fascino. Il lettore che ama analizzare i comportamenti umani e le meccaniche sociali per comprenderle meglio, non può che attingere proficuamente dall’abbondanza di sentimenti riversati in queste 387 pagine. In Russia capitava spesso che uno scrittore pubblicasse i romanzi “a puntate”, perché l’editoria del libro si occupava solo degli autori di fama consolidata. Nel 1862 Dostoevskij aveva già una discreta fama, tuttavia Umiliati e offesi apparve ancora su una rivista. È la storia della famiglia Ikmenev, capaci amministratori di una proprietà terriera del principe Valkovskij e da quest’ultimo incolpati di frode e cattiva gestione. Il capofamiglia Nikolaj Sergejic respinge le accuse e si avventura in una complicata vicenda giudiziaria, che lo vede immancabilmente sconfitto. Ad acuire il dolore dell’umiliazione giunge la figlia Nataša che si innamora del figlio del principe, un giovane buono ed incostante di nome Alëša, ed abbandona la famiglia per vivere con lui. Il principe Valkovskij s’intromette e cerca di manipolare il figlio affinché sposi Katja, figlia di una ricca contessa; dopo un lungo tergiversare, Alëša sceglie di lasciare Nataša. La riconciliazione tra figlia e genitori non è semplice ed avverrà soprattutto grazie a Nelly, un’orfana accolta da Vanja, figlio adottivo degli Ikmenev e voce narrante del libro. Gran parte dei personaggi del libro sono fondamentalmente buoni, positivi, ricchi di pietà e virtù umane. Su tutti sovrasta la terribile figura del principe Valkovskij, uomo cinico e dissoluto che riesce sempre ad ottenere ciò che vuole. La crudele e veritiera ironia di questa storia è insita nella società umana: le persone migliori alla fine risultano le peggiori, sono destinate a far parte di coloro che sono “umiliati e offesi”. Perfino alcuni personaggi positivi, come Alëša e Katja, finiscono diventano involontari strumenti di divisione, perché non sono capaci di decidersi. È un romanzo giocato molto sui personaggi, sui loro rapporti e sulla forza dei loro sentimenti. Va rilevato che Dostoevskij scade spesso nel patetismo e si avvale di qualche colpo di scena di troppo, giusto per mantenere viva l’attenzione. Non so se siano questi aspetti a rendere il libro scorrevole, eppure l’ho trovato gustoso ed appassionante al punto di divorarlo in poche serate. Sebbene ci sia una certa discontinuità narrativa, colpisce moltissimo la rappresentazione vivace ed accorata che l’autore fornisce delle passioni umane più essenziali: l’aspirazione al bene, il fascino del male, la pietà, l’orgoglio, lo spirito di sacrificio. C’è poco spazio per descrizioni, poiché il testo si concentra tutto su azione e dialoghi, però quello che si può trovare è sufficiente a calare il lettore nella quotidianità russa, fatta di samovar fumanti, locali fastosi e sordidi tuguri, gustosi banchetti e povere mense. Umiliati e offesi non è un lavoro perfetto, ma denota un notevole sforzo da parte di Dostoevskij di organizzare coerentemente il suo pensiero, stavolta utilizzando personaggi forti delle loro idee eppure ancora assimilabili a figure del mondo reale. L’isterica bimba Nelly, il subdolo principe Valkovskij, la caritatevole Anna Andreevna e l’ubriacone e trafficone Masloboev si ritagliano un posto d’onore tra i migliori personaggi dello scrittore russo. Pur comprendendo che si tratta di un romanzo d’altri tempi, dove c’era più tempo e voglia di cedere al sentimentalismo e di indagare i comportamenti umani, credo che qualunque lettore possa accostarsi a questo libro senza particolare impegno e trarne utili spunti di riflessione.
Inviato il: 2/11/2008 12:11
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