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SECCHIA RAPITA (LA) --- di Alessandro Tassoni
Con quest’opera concludo la lunga lista di poemi cavallereschi italiani che mi porto dietro dalla quarta superiore. È un finale un po’ in sordina, perché si tratta di un poema eroicomico, oltre che breve. Confesso che ha saputo entusiasmarmi e deludermi in ugual misura. La Secchia Rapita è stato pubblicato per la prima volta nel 1622 ed è un racconto in versi abbastanza spiccio (12 canti da 70 stanze l’uno). Si tratta di un’opera minore, lasciata in un cantino fino agli inizi del XX secolo, quando l’interesse per lo stile iniziò a lasciar spazio allo studio storico della letteratura. Infatti, il poema di Tassoni è ricco di informazioni sulla sua epoca: nomi, avvenimenti, abitudini, usanze, dialetti, espressioni tipiche e molto altro. Se non c’è interesse per questi argomenti, ne la Secchia Rapita non si troverà pane per i propri denti. Non sapendo nulla a riguardo, mi sono accinto alla lettura, incoraggiato dall’agilità del volume. La vicenda si ispira a fatti realmente accaduti, favoleggiando sulle cause e sugli avvenimenti. È narrata una guerra tra Modena e Bologna, città tradizionalmente rivali (la prima legata all’Imperatore di Germania, la seconda fedele vassalla del Papa). Il motivo del conflitto è quanto mai ridicolo: i Modenesi sottraggono una secchia da un pozzo in territorio bolognese. Per questa secchia, che ha la stessa funzione di Elena nell’Iliade, si radunano gli eserciti, composti dai vari alleati delle due città. La guerra procede con alterni successi, finché alcuni eventi soprannaturali interrompono le contese lasciando spazio ad argomenti amorosi e cortesi, in cui la scena è dominata dall’unico vero personaggio del poema: il conte di Culagna, un cavaliere codardo e maldestro, che si innamora perdutamente della bella guerriera Renoppia e decide di avvelenare la propria moglie per poter coronare il suo sogno d’amore. Non solo finisce per sorbirsi il veleno (in realtà il medico gli aveva dato un semplice lassativo), ma si scopre anche cornificato dalla stessa moglie. Allora il conte sfida l’amante di lei, facendo una figuraccia dietro l’altra. Terminate le disavventure del conte, la guerra volge alla conclusione grazie all’intervento di un messo papale, che mette d’accordo i contendenti. Tassoni offre una discreta mole di notizie in questo libretto, in buona parte poco interessanti per il lettore moderno e sovente indecifrabili, poiché si riferiscono a fatti e persone caduti nel dimenticatoio da secoli. Inoltre, si tratta di un’opera ancora poco studiata e commentata: l’unica versione che ho reperito è del 1912 (di P. Papini, ristampa del 1984) e le note sono sovrabbondanti, pesanti e spesso poco pertinenti, almeno per le mie esigenze. Così, in alcune parti in cui il poeta si dilunga in elenchi di nomi ed avvenimenti storici, ho dovuto fare l’esperienza della noia tra le allusioni incomprensibili di Tassoni e le glosse di lunghezza biblica di Papini. La narrazione, invece, è abbastanza briosa e divertente. Tassoni riesce a prendere in giro qualsiasi cosa: letteratura antica (soprattutto i poemi omerici), letteratura cavalleresca, personaggi ed usanze del suo tempo, con una varietà incredibile in meno di seimila versi. Dietro gli eserciti c’è lo zampino di divinità pagane (Zeus & Co.), la cui presenza di sfondo è del tutto assurda, visto che in terra c’è il Papa; d’altra parte abbiamo scontri epici, ma dopo una serie di insulti e terribili scambi di fendenti si assiste a risoluzioni burlesche, in cui ad un contendente cascano le braghe e, finito in acqua, non riesce a nuotare affogando miseramente. Nulla di imperdibile: un’opera che si può gustare nei suoi tratti più ameni solo se si ha un’idea di che cosa Tassoni vuole prendere in giro, se non altro nella letteratura. Purtroppo ciò richiede un sacco di letture prima di questa, ma forse per la Secchia Rapita non ne vale la pena. Per me è stata un’esperienza agrodolce: occorre essere ben più che appassionati di cultura letteraria per trarne gratificazione.
Inviato il: 5/1/2008 11:01
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SIDDHARTA --- di Hermann Hesse
Qui abbiamo a che fare con uno dei romanzi più letti dai giovani, un libretto agile e denso di riflessioni affascinanti, vera e propria manna per gli studenti del liceo e per qualunque persona affascinata dai percorsi spirituali orientali, ma non è interessata ad approfondire troppo l’argomento. Quando ero a scuola molti compagni (per essere precisi compagne) di classe mi parlavano di questo romanzo, descrivendolo come un testo illuminante e fecondo. Allora le mie letture erano molto terra terra e ci sono voluti molti anni perché mi accostassi con serenità a qualunque tipo di testo. Così, nel 2006 ho scoperto nella libreria di casa mia una copia di Siddharta. Scritto in Svizzera negli Anni Trenta, Siddharta racconta la vita dell’omonimo personaggio, il giovane figlio di un Brahmino, bello, intelligente, pieno di qualità, ma sotto le promettenti apparenze nasconde un cuore infelice, una mente cogitabonda anelante la verità. Decide perciò di abbandonare la casa del padre per cercare una risposta alla sua insoddisfazione, accompagnato dal fedele amico Govinda. Siddharta si dedica all’ascetismo, poi cerca il consiglio dell’illuminato Gotama; la mirabile dottrina del Buddha conquista Govinda, così Siddharta si ritrova completamente solo nella sua ricerca. Abbandonate le pratiche mistiche ed intellettuali, il giovane si getta nei piaceri materiali: diventa un mercante ricchissimo, sperpera in modo dissennato il proprio denaro e si intrattiene con l’affascinante cortigiana Kamala, che lo educa all’esercizio dell’amore. Dopo anni e anni, Siddharta si trova a non avere più alcuno scopo e sprofonda nella disperazione, finché tenta di annegarsi. In quell’oscuro frangente, viene colto da un’intuizione che lo riporta indietro di quarant’anni, lo rende di nuovo bambino e capace di apprezzare ed ascoltare il mondo nella sua unità. Aiutato dall’affabile barcaiolo Vasudeva, Siddharta si riaccosta alla natura e alla sapienza, riuscendo a superare sia la morte di Kamala sia l’odio che gli dimostra il figlio. Il libro si conclude con la fugace riunione di Siddharta e Govinda: il secondo è ormai un monaco, convinto di aver trovato l’illuminazione nella dottrina di Gotama; il primo, invece, ha vissuto ogni genere di esperienza. Le sue riflessioni, maturate durante una vita piena, riescono a dare a Govinda la stessa impressione di santità che lo aveva attirato verso il saggio Gotama. Un libro che si legge in poche ore, scritto con una prosa elegante ma mai ridondante, è nello stesso tempo un romanzo ben scritto e un’istruttiva parabola filosofica. Mi chiedo se il motivo del suo successo presso i giovani sia il fascino dell’oriente unito alla bella scrittura, oppure i messaggi che si possono trovare al suo interno. Per quanto mi riguarda, la vicenda potrebbe essere ambientata in qualunque luogo; l’India dà alla vicenda il colore esotico e mistico, ma i pensieri di Siddharta sono quelli di tutti gli uomini “in ricerca”. Credo che molti si siano ritrovati in questo libro, rileggendo le domande che tante volte si erano posti, giungendo magari alle medesime risposte. Tuttavia Siddharta non dipinge un quadro sereno, lineare ed idilliaco della strada verso l’illuminazione; ne evidenzia fin troppo bene le difficoltà, i problemi, le miserie e le sofferenze. Un’altra domanda che mi pongo è questa: quanti giovani lettori hanno fatto propria la saggezza di queste pagine e quanti, invece, le hanno scorse cercandovi una parola consolatoria? È però difficile scoprire la risposta, perché pochi hanno il coraggio di ammettere pubblicamente la loro ricerca interiore. Nella sua brevità è un libro che mette molta carne al fuoco, assolutamente meritevole di lettura. Lo consiglio a chi, come me, è nella costante ricerca di se stesso e di un senso profondo della vita. Lo raccomando anche a chi ama riflettere, ma trova i testi filosofici o religiosi troppo difficili da digerire; lo stile raffinato di Hermann Hesse è la soluzione ottima a questo tipo di problemi.
Inviato il: 5/1/2008 11:06
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STORIA DI RE ARTU’ E DEI SUOI CAVALIERI --- di Thomas Malory
Questo popolare romanzo cavalleresco fu scritto nel nono anno del regno di Edoardo IV (1469), all’epoca della Guerra delle Due Rose. Il suo autore è ser Thomas Malory, un avventuriero che finì in carcere con diverse imputazioni e decise di impiegare fruttuosamente il suo tempo raggruppando ed arricchendo 8 romanzi francesi in prosa. L’opera fu pubblicata nel 1485 con il titolo La Morte D’Arthur, da parte di William Caxton, primo stampatore inglese. Si tratta di un’opera di cui tutti conosciamo qualcosa, basti pensare a quanti racconti e film sono stati realizzati sul ciclo bretone e sulla leggenda di Re Artù. Per molti il riferimento autorevole è proprio la raccolta di Malory, che oltre a riunire assieme libri scritti da autori diversi ne ha uniformato lo stile, ha aggiunto parti per colmare lacune e ne ha smussato la ripetitività. Le narrazioni cicliche dei poemi cavallereschi si distinguevano proprio per il continuo alternarsi e ripetersi dei temi; Malory ha invece reso la prosa continua e coerente, in cui trovano spazio anche i pensieri dell’autore, segnando così il passaggio dal romanzo medievale a quello moderno. Le pagine sono 723, in buona parte di facile lettura. All’interno trova spazio davvero tutto il materiale tipico dei romanzi arturiani, ma la storia di Artù come la conosciamo abitualmente è a malapena lo sfondo di una serie di vicende minori, i cui protagonisti sono i cavalieri della Tavola Rotonda. Tanto per sfatare un altro mito, vi comunico che il celeberrimo Mago Merlino, saggio consigliere di Artù e personaggio più inflazionato del ciclo bretone, scompare dopo sole 88 pagine. Le parti migliori, a mio avviso, sono però quelle più note e più sfruttate dai posteri, in cui Artù è quasi sempre protagonista. In particolare, meritano la lettura la Storia di Re Artù, in cui si racconta della Spada nella Roccia, di come Artù sale al trono, della lotta contro i re ribelli e del dono di Excalibur da parte della Dama del Lago; la Storia del Sangrail, un racconto bellissimo ricco di misticismo, visioni, profezie, miracoli e ricerca della perfezione da parte dei cavalieri; il libro di Lancillotto e Ginevra, dove si narra del segreto amore tra i due e una serie di episodi collegati; il gran finale, la Morte di Artù, dove tra calunnie ed incomprensioni si giunge al conflitto lacerante con Lancillotto, poi al ritorno in Inghilterra e alla tragica morte per mano del figlio Mordred. Gli altri racconti hanno un tono meno elevato ed una ripetitività che a volte può risultare seccante. Tra tutti, segnalo come ostico il libro di ser Tristano di Liones, che costituisce quasi un terzo dell’opera e che annoia in certi punti perché non accade nulla di risolutivo. Anche il finale è monco, non si sa che fine faccia ser Tristano, dopo tutte le sue peripezie e centinaia di scontri; Malory compensa la lacuna del romanzo francese con un piccolo appunto in un libro successivo. Inoltre, mi permetto di affermare che la Storia del nobile Artù che divenne Imperatore col proprio braccio, in cui si racconta la guerra contro l’Imperatore romano Lucio, la vittoria e la proclamazione di Artù a re di tutta la cristianità, è talmente strampalata ed antistorica da non riuscire nemmeno a far sorridere. Però è una testimonianza preziosa di come nel Medioevo non si avesse una retrospettiva chiara dei tempi passati, come del resto tutta l’opera, dove abbondano anacronismi e vistosi falsi storici. La narrazione di alcune gesta ricalca un canovaccio che subisce poche alterazioni. Ciò non toglie che la prosa sia agile, gradevole e i toni appaiano epici, patetici o drammatici a tempo debito. Diventa perciò un piacere leggere le mille avventure dei cavalieri di Artù, in questa trasposizione inglese che le trasforma in un romanzo coeso e dove compaiono continui riferimenti ad azioni future e passate. Un’opera che posso tranquillamente consigliare a chi ama la leggenda di Re Artù e le storie di cavalieri, damigelle, tornei e ricerche favolose.
Inviato il: 5/1/2008 11:10
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TARAS BUL’BA --- di Nikolaj V. Gogol
Quando ho preso in mano questo libro, il cui nome ho sentito spesso nominare, non avevo idea di che argomento trattasse. Scorrendo le pagine, abbellite da pregevoli illustrazioni, ho compreso che poteva interessarmi. Pubblicato nel 1835, Taras Bul’ba ha fatto parte di una raccolta, pur essendo un romanzo di media lunghezza (226 pagine). Si narrano le imprese di un ataman cosacco, Taras Bul’ba, e dei suoi figli Ostap e Andrea. Il libro inizia con il ritorno a casa dei due giovani, a lungo rimasti assenti per studiare in un collegio ecclesiastico di Kiev. La madre vorrebbe tenerli accanto a sé, ma il burbero padre insiste per condurli presso il grande accampamento dei cosacchi, la Sjec di Saporog, dove i guerrieri trascorrono nella gozzoviglia gli intermezzi tra una scorreria e l’altra. Dopo qualche settimana di bagordi, Taras è stanco di oziare ed incita a riprendere le azioni di guerra, per esempio contro gli odiati vicini polacchi. I guerrieri accettano di buon grado e sono lesti a gettarsi in violenze e saccheggi. La bramosia di bottino li spinge ad assediare la città di Dubno, che non riescono ad espugnare e sperano di prendere per fame. In questo frangente, Andrea incontra una giovane conosciuta a Kiev, che scopre essere la figlia del vojevoda della città. Per amore di lei, egli abbandona il suo esercito e si unisce ai polacchi, giunti ad aiutare gli assediati. Gli scontri sono sanguinosi e i morti si contano da ambo le parti. Taras Bul’ba è profondamente addolorato per il voltafaccia del figlio e non esita ad ucciderlo non appena gli si para dinanzi. I cosacchi sono però sconfitti e Ostap è fatto prigioniero. Il vecchio Taras riesce a fuggire, ma non può sopportare di lasciar perire il figlio prediletto senza una parola di conforto. Nonostante l’aiuto dell’avido ebreo Jankelj, Taras riuscirà a salutare Ostap solo sul patibolo. La rabbia del vecchio cosacco grida vendetta e con un gruppo di valorosi si getta in folli scorrerie, finché viene catturato e messo al rogo. Il libro si conclude con Taras che osserva le sue truppe che si mettono in salvo, mentre le fiamme divampano sotto i suoi piedi. La storia è ricca e commovente, fatta di grandi imprese militari e squisiti quadretti sentimentali. L’argomento principale è l’amore, sia esso per la patria, per una donna, per un padre, per i figli o per i camerati. Un concetto molto particolare dell’amore, che proviene dal cuore più che dalla mente, come chiarisce Taras in un magnifico discorso ai cosacchi prima della battaglia; un amore che non conosce limiti, che porta a morire per un compagno e ad essere estremamente brutali con i nemici. Ci sono un sacco di implicazioni dietro i sentimenti dei cosacchi, popolo fiero ma oppresso dalla dominazione straniera, sia essa tartara o polacca, di matrice religiosa oppure economica. Le scene di battaglia sono ispirate all’Iliade, come chi ha letto il poema omerico può subito notare. L’unica differenza è l’ambientazione, dove trovano spazio metafore ed aneddoti tipici della cultura russa. Tutto il resto è puro romanticismo, perfettamente bilanciato tra la grande passione di Andrea, la tenerezza della madre, l’orgoglio di Ostap e il patriottismo di Taras Bul’ba. Un ottimo romanzo, di rapida lettura e pieno di spunti interessanti, adatto soprattutto a chi vuole approfondire la conoscenza della cultura russa. Laddove è possibile, è buona cosa scoprire una civiltà straniera a partire dalla letteratura; Taras Bul’ba è un mattone essenziale per costruirsi un’idea dello spirito russo, oltre che un piacevole intrattenimento.
Inviato il: 5/1/2008 11:13
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L’ULTIMO DEI MOICANI --- di James Fenimore Cooper
Nonostante la mia scaletta delle letture finisca per essere inevitabilmente sovvertita, la lettura di questo pregevole romanzo d’avventura datato 1826 era una tappa obbligata del percorso iniziato con Miti e leggende degli indiani d’America. Di tutt’altro respiro, l’opera di J.F. Cooper si presenta come un racconto ricco di intrattenimento, ma con notevoli spunti pittoreschi e meditativi. Pur nella sua redazione antiquata e non priva di difetti, si tratta di un lavoro degno e memorabile. L’ultimo dei Moicani è costituito da 353 pagine, ripartite in 33 capitoli. Il racconto è ambientato nel 1757, durante le guerre coloniali nel Nuovo Mondo, che si svolgono tra inglesi e francesi. In questo contesto si inserisce la vicenda di due giovani donne, Cora e Alice, che decidono di raggiungere l’anziano padre, il colonnello Munro, presso il forte da lui presidiato. Purtroppo scelgono il momento sbagliato, perché i francesi del marchese di Montcalm hanno posto il forte sotto assedio. Nel disperato tentativo di raggiungere il padre, Cora e Alice saranno accompagnate dal maggiore Duncan Heyward e dallo strampalato maestro di canto David Gamut. La loro guida indiana, l’Urone Magua, cova un progetto di vendetta contro Munro: vuole ferire il colonnello rapendo le sue figlie. Sul loro cammino incontrano l’esploratore bianco Occhio di Falco e i due Moicani Chingachgook e Uncas, rispettivamente padre e figlio; costoro si offrono di scortare le donne attraverso la foresta. Il piano di Magua non tarda ad attuarsi e solo l’esperienza e l’intraprendenza degli “uomini dei boschi” riescono a salvare i compagni meno esperti dalle grinfie del perfido Urone. Al forte non trovano che un attimo di tregua, poiché i francesi costringono Munro alla resa. Cora ed Alice sono nuovamente rapite e stavolta la loro liberazione richiederà lunghe ricerche e grandi sacrifici da parte dei loro compagni. Un po’ alla volta, le figure dei Moicani acquistano sempre più mordente, così come l’accesa rivalità tra Uncas e Magua. La vera svolta della vicenda si ha verso la fine, quando Uncas si manifesta davanti ad una tribù Delaware, rivelando di essere l’ultimo discendente di una stirpe di gloriosi guerrieri. Riconosciuto dal venerabile saggio Tamenund, Uncas può guidare i Delaware contro Magua, ma nella sfida finale per liberare Cora troverà la morte, assieme alla donna bianca che amava. Con un funerale indiano degno dell’Iliade si conclude l’opera. Un racconto formidabile, dove la raffinatezza delle descrizioni paesaggistiche ed etnologiche si unisce alla scorrevolezza della trama. L’autore si configura come il Walter Scott americano, al lavoro per dare alla neonata nazione un degno passato mitico. Per quanto la loro veridicità storica lasci a desiderare, i personaggi di Cooper sono estremamente ben caratterizzati e non arrestano il loro sviluppo dalla prima all’ultima pagina. Si può osservare la tendenza a suddividere gli indiani in “buoni” (amichevoli verso i bianchi) e “cattivi” (le stirpi orgogliose del loro antico dominio); tuttavia, l’intera vicenda è subordinata alla sfida epica tra il generoso Uncas e il diabolico Magua, che assume i tratti di una vera e propria tragedia teatrale. Il testo è privo di grossi espedienti letterari o di tecnicismi; è semplice ed efficace, per quanto il tono dei dialoghi sia quello del XVIII secolo. Le parti narrative e i discorsi predominano sulle descrizioni, che compaiono solo per tracciare brevi panoramiche sugli scenari della vicenda. Cooper ambienta il romanzo in luoghi visti di persona e le sue illustrazioni hanno la forza della verità. Lo stesso dicasi per le tradizioni dei pellerossa, indagate e riprodotte con cura, anche se Cooper attribuisce i tratti ammirevoli ai Delaware e quelli brutali agli Uroni. C’è però il desiderio di ritrarre gli indiani come un popolo nobile nella sua sconfitta: il pellerossa assurge a dignità di simbolo. L’ultimo dei Moicani ha il gran pregio di conciliare il piacere della lettura con la riflessione e l’informazione. Non sono molti i romanzi odierni che possono permetterselo. Lo raccomando a tutti gli amanti del romanzo in sé, perché troveranno una bella storia in un contesto accattivante; lo consiglio altresì a chi come me prova un profondo senso di desolazione per il genocidio perpetrato ai danni dei nativi americani. In questo libro, magari attraverso idealizzazioni eccessive, si trova un forte intento celebrativo nei confronti di un popolo, sconfitto perché migliore dei suoi vincitori.
Inviato il: 5/1/2008 11:17
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L’UOMO INVISIBILE --- di Herbert George Wells
Un po’ alla volta lo scientific romance di H.G. Wells mi ha conquistato, perciò ho deciso di leggere almeno le sue opere più famose e fortunate. Wells è considerato il padre della fantascienza, assieme a Jules Verne, ma nei suoi lavori trovo quell’inquietante ambiguità, quell’unione di passione e timore per la scienza che le rende interessanti per un pubblico di qualunque età. Il secondo passo è stato leggere L’Uomo Invisibile, il cui titolo originale è The Invisible Man: a grotesque romance. Scritto nel 1897, si tratta di un breve racconto di 240 pagine che si legge tutto d’un fiato, o quasi. Ho trovato molto interessante la disposizione non cronologica degli eventi, oggi scontata ed abusata, ma per l’epoca assai ben architettata. Una fredda giornata d’inverno il quieto villaggio rurale di Iping è turbato dall’arrivo di uno strano ospite, un uomo scontroso e riservato, costantemente imbacuccato nei suoi abiti. Costui affitta una stanza presso la locanda, conducendo strane attività nel più assoluto riserbo, col risultato di attirare la curiosità e il sospetto di tutto il paese. I mesi trascorrono senza conseguenze fino a che, per alcuni fatti contingenti, l’uomo è costretto a svelare il suo segreto: è un uomo invisibile. La reazione generale è di terrore, così l’individuo è costretto a svestirsi e fuggire. Nel suo girovagare cercherà disperatamente degli alleati nel vagabondo Thomas Marvel e nel dottor Kemp, al quale racconta come è pervenuto a questa insolita condizione. La sua mente finisce col vacillare e la crescente ostilità ed organizzazione della gente porterà l’avventura dell’uomo invisibile, il cui nome è Griffin, ad una triste conclusione. Il racconto inizia in sordina e lascia spiazzati, perché l’uomo invisibile compare senza alcuna spiegazione e si comporta in un modo apparentemente ingiustificato. Occorre leggere più di mezzo libro per ricevere i dovuti chiarimenti: solo allora si potrà apprezzare lo stato d’animo di Griffin e cogliere il motivo delle sue azioni. Al solito, l’autore è un maestro nell’immaginare situazioni insolite, offrendo accurate panoramiche sulle reazioni della gente a fatti inspiegabili. Griffin è uno studioso di ottica, pervenuto all’invisibilità sottoponendosi ad esperimenti atti ad abbassare l’indice di rifrazione del suo corpo, fino ad eguagliare quello dell’aria. L’ipotesi è fantasiosa, ma non priva di fascino. Divenuto invisibile, il fisico si appropria degli ovvi vantaggi di tale stato, ma scopre una serie impressionante di problemi collaterali. La sua frustrazione cresce e il suo carattere peggiora, fino a sentirsi allo stesso tempo un reietto della società e un potenziale dominatore. Questa dicotomia lo porta necessariamente ad una fine tragica. Il testo è molto agile ed essenziale, privo di grosse descrizioni, eccetto nell’interessantissima parte dove Griffin spiega le sue ricerche e disavventure. Ci sono un sacco di personaggi ma nessuno è sviluppato eccessivamente: l’attenzione è focalizzata sull’uomo invisibile e su come una simile creatura può rapportarsi al resto dell’umanità. A mio parere, si tratta di un romanzo grottesco sul problema della diversità, più che di un racconto di fantascienza; il sottotitolo dell’edizione inglese è abbastanza chiaro in proposito. L’uomo invisibile è il tipico romanzo di cui tutti conoscono il protagonista, grazie al cinema e ai mass media in generale, ma che pochi si sono preoccupati di leggere veramente. Un ottimo racconto, destinato più ad un pubblico maturo che ai bambini, dove si mescolano alcune ipotesi affascinanti e un’attualissima metafora sulla società umana, sempre lesta ad emarginare e rifiutare coloro che sono “diversi”.
Inviato il: 5/1/2008 11:18
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THE WAR OF THE WORLDS --- di Herbert George Wells
I motivi che mi hanno esortato a leggere questo libro sono due, di alterno valore: in primo luogo, desideravo conoscere la storia da cui è tratto il recente film di Spielberg, che mi appresto a guardare; secondariamente, sono stato fulminato leggendo il primo paragrafo del testo inglese, che ho scaricato da Internet. Si tratta di un brano di incredibile potenza. Mi sono così gettato nella lettura di questo breve romanzo, che consta di 153 pagine divise in due libri. Nella prima parte, The Coming of the Martians, si raccontano i primi, drammatici contatti con gli invasori venuti dallo spazio, atterrati nei sobborghi di Londra. Ben presto le creature si rivelano in tutta la loro superiorità tecnologica, annientando le resistenze umane e causando esodi di dimensioni apocalittiche. Nella seconda parte, The Earth under the Martians, prevalgono le scene di desolazione e la riflessione sul destino dell’umanità, schiacciata in un battibaleno da questa inaspettata potenza aliena. E’ un romanzo seminale, pionieristico nel filone della fantascienza, in perfetto accordo con gli altri romanzi di H.G.Wells, uno scrittore con una gran passione per la scienza, che permea quasi tutti i suoi lavori. The War of the Worlds stupisce per la modernità di certe visioni, soprattutto perché è datato 1898. L’ambientazione tardo-ottocentesca è un elemento di gran fascino: la diffusione capillare dei giornali, le ferrovie, le batterie di cannoni, le varie zone di Londra, che allora era la più grande città del pianeta (per questo viene attaccata). La storia è tutto un succedersi di scenari di immane distruzione, inquietanti rivelazioni sui marziani e momenti di grande tensione emotiva. Lo scrittore è abilissimo nel tracciare immagini avvilenti e rovinose, atte a comunicare le sensazioni degli uomini, sconfortati davanti a simili invasori. Wells usa moltissimo la descrizione, ricorrendo al dialogo solo nei frangenti più tesi e concitati. La varietà della sua prosa è ottima, pur registrando periodicamente qualche calo di tono e una certa ripetitività. Tuttavia, quando l’ispirazione lo prende, come nel paragrafo che ho riportato, riesce a tracciare immagini fortissime e ad ispirare inquietudine. La forma del testo è il diario, scritto dal protagonista, che è uno studioso di filosofia di cui non si saprà mai il nome. I nomi delle persone non compaiono quasi mai nel testo, così come pochissimi sono i personaggi usati (il protagonista,un soldato artigliere, un curato, il fratello del protagonista, qualche comparsa), il cui scopo è fornire più punti di vista sulla vicenda. Pagina dopo pagina, si delinea uno scenario desolante, dove si fa strada la riflessione sul ruolo dell’umanità. In due giorni i marziani riescono a scalzare dal piedistallo la più grande potenza della Terra, che si trova improvvisamente ridotta alla condizione animale. In tutto il libro aleggia questa visione: l’uomo che da cacciatore diventa preda di un intelletto superiore al suo. Da qui parte la critica, misurata ed efficace, delle abitudini mentali del XIX secolo. Le figure del curato e dell’artigliere aiutano a tracciare il quadro: il primo reagisce all’invasione con disperazione, considerandola una punizione divina ed imbarcandosi in ragionamenti che lo porteranno alla pazzia; il secondo riconosce la sconfitta ed osa elaborare una controffensiva a lungo termine, rivelando infine tutta la sua pochezza di essere umano, assai fiducioso ma alla fine abulico ed incapace di reagire con lucidità. Non racconterò come finisce il libro, perché è una bella sorpresa. Se siete interessati a questo tipo di racconto e padroneggiate la lingua inglese, vi consiglio di procurarvi il testo in lingua originale. Ne trarrete una piacevolissima esperienza di lettura, che vi terrà incollati al testo finché non lo avrete terminato. A me sono bastati tre giorni (8 ore) e me lo sono portato dietro perfino in Università, per proseguire nelle pause tra le lezioni. Davvero entusiasmante e ricco di motivi di riflessione, a più di un secolo dalla redazione.
Inviato il: 5/1/2008 11:20
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17/4/2007 19:20 Da Casa Mia
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LA PIRAMIDE DI ATLANTIDE --- di Thomas Greanias
Conrad Yeats è un archeo-astronomo inviso alla comunità scientifica per le sue bizzarre teorie sull'evoluzione della civiltà e per i suoi limitati scrupoli morali nel dimostrare le sue teorie. D'improvviso, però, gli si presenta una possibilità insperata di dimostrarle. Il padre adottivo, il generale Yeats, lo convoca per indagare su un ritrovamento a dir poco straordinario: una gigantesca piramide, in tutto e per tutto simile alla Grande Piramide di Giza ma ancora più gigantesca, sepolta fra i millenari ghiacciai dell'Antartide! Ma l'esercito degli Stati Uniti non è l'unico organismo a conoscenza del ritrovamento: anche il Vaticano è interessato alla scoperta, e il Papa in persona decide di inviare sul posto Serena Serghetti, brillante ex suora, diventata famosa sulla stampa mondiale come "Madre Terra" per il suo impegno in campo ambientalistico. Ma ci sono anche altre organizzazioni interessate alla scoperta... Il filone è quello arcinoto del thriller storico: incredibile scoperta archeologica, indagine, lotta fra fazioni avverse ecc. Qui, tuttavia, il tutto è condito da un indubbio rigore scientifico, anche se non certo "tradizionale", e da una discreta preparazione teorica dell'autore, il debuttante Greanias, che si è evidentemente fatto le ossa sugli ottimi saggi di archeo-astronomia di Bauval e Hancock. Appare evidente la conoscenza di Greanias di Il Mistero di Orione (1994), in cui i due ingegneri discutono la possibilità che sussista un preciso legame fra la struttura interna dell Grande Piramide, la configurazione geografica delle Piramidi di Giza e altri siti archeologici coevi, e alcune costellazioni, in particolare Orione e il Cane Maggiore. È palese anche che Greanias conosce direttamente le teorie storico-geologiche di Charles Hapgood, ideatore della controversa teoria della cosiddetta "dislocazione della crosta terrestre" (che convinse a suo tempo anche un certo Albert Einstein), il quale viene citato anche direttamente nel romanzo. Il tutto rende la storia molto più verosimile di quanto il debole pretesto iniziale non lasci supporre. Lo stile lascia forse a volte un po' a desiderare, è troppo frammentario nelle descrizioni e un po' confuso quando il ritmo della narrazione diviene più incalzante, ma il romanzo, che in fin dei conti non è nemmeno troppo lungo, cosa che in opere di questo filone è spesso indice di verbosità e finisce per rendere le opere sommamente noiose, e riesce in ogni caso a prendere un lettore "goloso". Consigliato a chi ama il genere più diffuso del momento, e come regalo post-festivo per chi vuole provare qualcosa di diverso dalle solite fotocopie mal riuscite de "Il Codice Da Vinci".
Inviato il: 7/1/2008 19:16
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Diacono
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TRILOGIA DEI GUARDIANI – Sergej Luk’janenko
Non sono un maestro come Gurghy nell’arte di recensire, spero però di farvi cosa gradita segnalandovi questi libri. Luk’janenko è uno scrittore di fantasy russo che in terra natia è stato acclamato come il nuovo Tolkien e colui che ha permesso alla letteratura russa di rinascere e sdoganarsi, il tutto grazie alla saga dei guardiani. Chi sono questi guardiani? Sono 3 “corpi di polizia” che nel mondo (e specificatamente a Mosca) sono impegnati a mantenere l’equilibrio fra il Bene ed il Male. Come avrete capito l’ambientazione è contemporanea. Il primo libro, intitolato “I Guardiani della Notte” è diviso in 3 episodi (così come gli altri 2 volumi) e narra le gesta di Anton Gorodecki, mago della luce, che è impegnato nel consegnare alla “giustizia” quanti agenti delle forze delle tenebre non rispettano il patto di stabilità stipulato fra Bene e Male. Sì perché i Guardiani della Notte sono le forze del bene che operano durante la notte, mentre in Guardiani del Giorno sono le forze del male che ricambiano le attenzioni durante le ore diurne. Nel mezzo, a fungere da ago della bilancia, c’è l’Inquisizione (composta da buoni e cattivi in egual misura). I Guardiani non interferiscono con i comuni mortali, ma sorvegliano gli “Altri”, cioè coloro che sono in grado di entrare nel Crepuscolo, una sorta di mondo parallelo in cui essi possono entrare ed uscire a loro piacimento, potendo in tal modo alterare la realtà del mondo fisico. Gli Altri sono vampiri, streghe e mutaforma oppure maghi, secondo se siano dalla parte del bene o avversari. Il secondo libro, “I Guardiani del Giorno”, narra la vicenda dal punto di vista delle forze delle tenebre. Il terzo libro, “I Guardiani del Crepuscolo” riguarda invece l’Inquisizione (l’ho appena iniziato). Personalmente non ho mai amato i libri composti da più episodi, ma devo dire che questa volta non sono assolutamente di intralcio alla narrazione globale, anzi. Sergej scrive bene, alle volte è un po’ nebuloso (si ha l’impressione che dia per scontate molte cose che si chiariscono solo col passare delle pagine) ma tutto sommato è godibile. Trovo interessante scoprire la Russia attuale (cosa impossibile leggendo i classici Dostoevsky e company) e soprattutto mi piace l’intreccio fantasy moderno. Se non altro esce dai soliti schemi e non ci sono sceriffi-FBI-X files o altre menate americane che sinceramente mi hanno stancato. Da notare che dal primo libro hanno tratto un film che non ho ancora avuto l’opportunità di vedere. Giudizio globale: 8 ADAMAS SEMPER!
Inviato il: 25/1/2008 10:47
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Precettore Superiore
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GLI ELISIR DEL DIAVOLO --- di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann
Ecco un autore poco conosciuto ed un libro di cui è facile ignorare l’esistenza. Non so che ispirazione mi abbia indotto a tirar giù dallo scaffale Gli Elisir del Diavolo, ma di certo non è stata una tentazione di Satana. In quel momento avevo bisogno di un romanzo che sapesse regalare il piacere della lettura, unito ad uno stile profondo e ad un pensiero sofferto, onde controbilanciare le opere contemporanee che avevo appena terminato. Quella narrata da Hoffmann è una storia densa di mistero, passione ed ambiguità. Il protagonista è un frate, Medardo, fervente predicatore in un convento di cappuccini, ma che all’improvviso viene turbato dalla comparsa di una giovane donna, Aurelia, che lo riempie di brame terrene. Un giorno scopre nella cripta del monastero una singolare reliquia, una fiala di elisir che il Diavolo in persona avrebbe consegnato a Sant’Antonio. Medardo ruba la reliquia, ne gusta il contenuto e da quel momento la sua vita claustrale non è più la stessa; alla prima occasione getta la tonaca alle ortiche e fa il suo ingresso nel mondo. Per una serie di coincidenze l’ex-frate guadagna l’accesso a corti di nobili e principi, presso le quali si macchia di orribili crimini nel tentativo di saziare i suoi desideri mondani. È continuamente obbligato a spostarsi e lungo il cammino incontra spesso un frate folle che gli rassomiglia, una sorta di doppio che lo insegue per farsi beffe di lui. Che sia il Nemico in persona? Aiutato dal singolare pittore Pietro Belcampo raggiunge l’Italia, roso dal rimorso e dall’orrore per i peccati commessi. La penitenza che si infligge è talmente severa da guadagnargli ironicamente la nomea di santo, finché il Papa stesso lo chiama a sé. Ma forze invidiose e terribili tramano contro di lui e la scelta migliore è tornare in Germania, nel vecchio convento. Lì il Priore gli rivela l’identità del suo doppio ed i fili contorti degli eventi sono finalmente riannodati. Una trama assai complicata, difficile da riassumere perché è un mistero di cui non si intuisce la soluzione. Hoffmann è un maestro nel calare il lettore nella limitata prospettiva di Medardo, al punto che egli crede perfino di aver commesso crimini perpetrati da altri. Alcuni brani sono pieni di visioni, di deliri e di incontri inquietanti, al punto che ci si chiede spesso dove stia il confine tra fantasia di realtà. L’autore però non scrive un racconto immaginario; per quanto la vicenda di Medardo sia colma di incredibili coincidenze, svelate col contagocce man mano che si prosegue, la sua storia è all’insegna del realismo più rigoroso. Lo stile di Hoffmann è molto ricercato, una prosa superba, faconda e fascinosa, almeno per chi non si spaventa davanti ai termini altisonanti, ai monologhi interiori e alla passione con cui gli scrittori romantici vergavano i propri romanzi. C’è grande forza espressiva ne Gli Elisir del Diavolo, un racconto giallo datato 1815, dove si esplica l’eterna lotta tra Bene e Male che furoreggia nel cuore di ogni uomo. L’animo del protagonista ospita gli ideali più nobili assieme a voluttà perverse ed incubi diabolici, una confusione interiore dovuta al contrasto tra il sincero amore per Aurelia e la lussuria che lo divora. È una sfida raccontata magistralmente, una sofferta ricerca di redenzione, il tutto calato nel contesto di un romanzo d’avventura, d’orrore e di mistero. Non c’è solo questo nell’opera di Hoffmann: ci sono freschi quadri dell’Europa ottocentesca, della sua nobiltà in decadenza, della Chiesa corrotta ed una profonda indagine psicologica attorno a questi ambienti. Sono molti i problemi accennati in queste 329 pagine e la riflessione va ben oltre il loro collocamento storico. Ma il bello de Gli Elisir del Diavolo è che si tratta di una lettura gradevole, appassionante e poliedrica, da raccomandare a chi cerca un testo elaborato, completo e soprattutto fuori dai soliti schemi. I testi originali ed innovativi si trovano anche nel passato.
Inviato il: 2/2/2008 21:23
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