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LOLITA ---- di Vladimir Nabokov
Non sono sicuro di cosa devo dire di questo libro, che mi ha preso moltissimo e che ho divorato in poche serate. Prosa brillante, a tratti semplice ed incisiva, a tratti ampollosa e ricercata, Lolita si lascia leggere ed alterna momenti di "stream of consciousness" quasi joyceani a narrazione piana ed attenta ai particolari. Certe descrizioni figurate possiedono un incredibile fascino, incitando il lettore a far lavorare la sua fantasia e la sua sensibilità. E' un testo imbarazzante, che all'epoca della pubblicazione (1955) fu al centro delle solite polemiche dei benpensanti, perché tratta un tema scabroso ora come allora: la pedofilia. Nabokov doveva possedere una sensibilità ed un'immaginazione fuori del comune per dipingere un personaggio affetto dalla morbosa passione per le "ninfette", particolari ragazzine tra i 9 e i 14 anni, dotate di un fascino preadolescenziale che nel libro non è chiarito per filo e per segno, ma alla fine si capisce. Lolita racconta, sotto forma di diario/verbale di processo, la storia di Humbert Humbert, in sostanza un pedofilo, che ha sviluppato questa tendenza in seguito ad un amore stroncato da ragazzo. Lo seguiamo nelle sue licenziose considerazioni sulle ragazzine, mentre si insinua nella casa di una vedova, madre di una bambina che lo ha stregato, Lolita appunto. Per soddisfare la sua terribile passione (della cui ignominiosità è ben consapevole) Humbert compie ogni sorta di raggiri ed intrighi, finendo per girovagare 2 anni assieme alla sua adorata bambina, che è allo stesso tempo figlia e amante. Bambina cresciuta precocemente, traumatizzata in vari modi, ma assai pronta di spirito, Lolita vive accanto a questo patrigno snaturato fino a che non decide di fuggire, per rifarsi una vita. Non voglio svelarvi nulla di più. Sappiate che è un libro che tocca profondamente; nel mio caso mi ha fatto vergognare. Questo perché davanti alle obbrobriose pulsioni di Humbert ero disgustato, ma tutto sommato curioso di vedere cosa avrebbe combinato. sarà perché Nabokov ci presenta la vicenda con gli occhi del pedofilo, tanto che certi eventi violenti non appaiono come tali, mentre le fantasticherie della mente di Humbert sembrano reali al lettore. La critica dell'epoca ha stroncato Lolita perché l'autore non dà un giudizio morale su questi fatti, anzi, dal libro non traspare se non in alcune considerazioni personali del protagonista. Io dico che Nabokov è stato geniale per come ha intessuto questo romanzo, facendoci entrare nella mente di un pederasta, tracciando il solco dei suoi pensieri con un realismo e un gioco degli inganni impressionante. Oggi non si parla più molto di questo libro, nonostante la pedofilia sia viva più che mai, anche grazie ad Internet, e si mescoli spesso con atrocità infami, assai lontane dal romantico desiderio di Humbert, che rimane sempre una brama esecrabile. Un altro punto importante, da me recepito leggendo Lolita, è il sottile confine tra pedofilia e apprezzamento estetico per le ragazzine. Conosco molte persone che sono attratte dalle giovani fanciulle (13-14 anni), pur sapendo che non si tratta di nulla di patologico. In questo senso, quanti sono pedofili a metà? Quanti hanno sviluppato simili tendenze per vicissitudini infantili/adolescenziali? Forse in questo libro chi legge troverà la risposta che lo riguarda. Leggetelo, scioccatevi anche voi, mettetevi anche voi il vestito del pedofilo e vediamo come ne uscite!
Inviato il: 5/1/2008 10:27
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MITI E LEGGENDE DEGLI INDIANI D’AMERICA --- di Richard Erdoes e Alfonso Ortiz
La storia americana mi affascina da quando sono bambino, col suo Far West, la corsa all’oro, le guerre indiane, episodi fondamentali dello sviluppo di quella nazione. Tuttavia, non è servito molto tempo per capire che dietro le prodezze dei cowboy e del Settimo Cavalleria c’era un intero popolo che stava soffrendo l’espropriazione dei suoi territori, nonché il soffocamento di uno stile di vita millenario. È con l’intento di scoprire questo modo di vivere, a partire dalle credenze spirituali alla sua base, che mi sono accostato a questo testo. Si tratta di una raccolta di centocinquanta leggende, attinte dalla vasta tradizione orale indiana, registrate dal vivo da Richard Erdoes (uno dei più grandi appassionati di cultura indiana e un abile prosatore), tradotte da Alfonso Ortiz (un indiano Pueblo, antropologo) dai pochi testi scritti a disposizione, oppure ricavate dalle raccolte di autori precedenti. In tutto 640 pagine, dove si può ripercorrere le date salienti della storia dei pellerossa, entrando per quanto possibile nel loro modo di pensare. I racconti sono stati suddivisi in sezioni tematiche, perciò troviamo: leggende della creazione umana, racconti sulla creazione del mondo, leggende dove intervengono gli astri del cielo, racconti epici, leggende di guerra, racconti d’amore, leggende del briccone (che nella cultura indiana è il Coyote), storie di animali, leggende su spiriti e fantasmi, visioni della fine del mondo. Tutti questi ambiti sono stati diversamente concepiti e trattati da ciascuna cultura indiana. In ciascuna leggenda sono facilmente identificabili i tratti distintivi della tribù che se la tramanda: in quelle Sioux compare spesso il bisonte, vera e propria fonte di vita per quei cacciatori, in quelle Pueblo è presente il grano, principale strumento di sussistenza per gli indiani del sud. Inizialmente un po’ di disorientamento è inevitabile, perché tra la nostra cultura e quella indiana c’è un abisso, difficile da superare. Frequente è la tentazione di leggere questi racconti come fossero fiabe per bambini, giudicandoli secondo il nostro punto di vista. Forse può stupire il fatto che i pochi superstiti di questa cultura narrino ancor oggi questi racconti e ne creino di nuovi. Sta di fatto, che il popolo indiano è ancora fortemente religioso e legato alla terra, nonostante la realtà moderna in cui ha dovuto disperdersi. Per comprendere la loro sensibilità, così come per rendersi conto di quanto armoniosa e saggia sia la loro concezione del mondo, occorre qualcosa di più della semplice curiosità. Se ci si accosta alla lettura con rispetto, si potrà scoprire un mondo spirituale di comunione con la natura, che le altre grandi culture hanno perso ai tempi dell’Eden, se mai ci sono stati. Non si può nemmeno misconoscere la bellezza di certi racconti, la poesia e la densa trama di seminali allegorie che sanno creare. Di questo dobbiamo ringraziare i curatori e il traduttore, che hanno compiuto un lavoro perfetto. Non so se sia facile reperire questo libro. I miei genitori lo hanno acquistato anni or sono, per posta. Questi racconti mi sono stati propinati come fiabe, ma non lo sono. Sono documenti vivi di un popolo e di uno spirito che finiranno purtroppo per scomparire. Oggi la popolazione indiana è ridotta a poche decine di migliaia di individui, sparsi nelle cosiddette riserve. Alla fine del libro, un’utile appendice aiuterà a ricostruire in parte il destino delle varie tribù, molte delle quali sono già scomparse. Se vi sentite animati da uno spontaneo interesse per questo popolo vinto e prostrato, portatore di una saggezza antica e in un certo senso illuminante, allora vi consiglio di ricercare quest’opera. Anche se non la leggete tutta, può rimanere sullo scaffale ed essere recuperata, per leggere qualche racconto che in quel momento sentite particolarmente vicino.
Inviato il: 5/1/2008 10:28
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MORGANTE --- di Luigi Pulci
Ormai ho imboccato la strada del poema cavalleresco, passando dal ciclo bretone a quello carolingio. Tra le tante opzioni possibili, ho scelto questo poema, imbeccato dall’antologia di 4^ superiore che riportava il celebre episodio di Morgante e Margutte, una pagina di esilarante comicità. Come sempre, quando mi accosto alla lettura ho delle precise aspettative: stavolta volevo scoprire se il Morgante può ancora far sorridere ai giorni nostri. Il poema è abbastanza voluminoso, in 28 cantari, di lunghezza variabile, per un totale che supera i trentamila versi (l’Orlando Furioso è più lungo, comunque). Fu redatto in due versioni: la prima, detta Morgante minore, si ferma al 23° cantare, è del 1478 ed è caratterizzata da una poesia spiccatamente comica e dal tono leggero, nonostante la ricercatezza di certe battute; la seconda, detta Morgante maggiore, è del 1483 ed aggiunge 5 cantari, per un totale di 28, prolungando la vicenda ed assumendo toni più lirici ed impegnati. Il poema è stato composto sulla base di un’opera preesistente, l’Orlando, che Pulci utilizza come linea guida per non perdere il filo, ricamandoci sopra un’infinità di gustose scene e dialoghi. Si narrano le gesta dei paladini di Francia, in particolare di Orlando e Rinaldo, il loro peregrinare nelle terre saracene e la difesa del regno di Carlo Magno dai continui tradimenti e sotterfugi del malvagio Gano di Maganza. In questo scenario convenzionale si inserisce il gigante Morgante, convertito da Orlando al cristianesimo, che compie numerose gesta di valore, ma anche atti di brigantaggio, soprattutto quando prende con sé il “mezzo gigante” Margutte. Al lettore dispiacerà veder morire Morgante nel 20° cantare, perché la sua scomparsa segna anche un cambiamento nel tono del poema. Dal 23° cantare si racconta la tragedia di Roncisvalle, dove Orlando e molti altri paladini muoiono in un’imboscata del re spagnolo Marsilio, architettata da Gano. Personalmente ho trovato un po’ seccante il progressivo allungamento dei cantari, che inizialmente non raggiungono le 100 strofe, per superare poi le 300. La cesura stilistica tra le due sezioni del poema è molto evidente. Nel secondo si inseriscono alcune frecciate polemiche a Marsilio Ficino, sotto forma di dissertazioni filosofiche, che risultano noiose perché spezzano la narrazione. Devo anche confessare che mi è dispiaciuto che Morgante sia un personaggio marginale, anche se le scene più gustose lo annoverano sempre tra i protagonisti. Il Morgante è sinceramente divertente, di una comicità raffinata eppur popolaresca, che oggi fatichiamo a comprendere. Pulci possiede una padronanza estrema delle parole e dei detti popolari; fa un uso abbondante di figure retoriche e si avvale spesso della forma dialogica. Nonostante prenda Dante come ispirazione, sia per la cosmologia che per la poetica, l’autore riesce ad ottenere una maggiore immediatezza, grazie al moderato utilizzo dell’enjambement, che secondo me è una croce per chi legge un testo poetico (al diavolo chi l’ha inventato!). Sarebbe un poema di facile e rapida lettura, se non fosse regolarmente necessario ricorrere alle glosse, per comprendere certe parole desuete, le citazioni ed alcune metafore ardite. Ad ogni modo, il Morgante è riuscito a strapparmi sincere risate e nel complesso a darmi una piacevole lettura: pochi sbadigli, perlopiù collocati nel lunghissimo 25° cantare e nella finale celebrazione di Carlo Magno (28°). Al solito, un libro che consiglio a chi ama la poesia italiana, la materia cavalleresca e riesce ancora a sorridere per l’esagerazione, per i discorsi tracotanti e per i giochi di parole. Non troverete volgarità nel Morgante, salvo qualche doppio senso: questo mi dà molto da pensare sull’idea di comicità che abbiamo sviluppato nella nostra epoca.
Inviato il: 5/1/2008 10:30
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MYSTERY TALES --- di Edgar Allan Poe
Chiunque ha avuto modo di accostarsi ai racconti di Poe si è certamente reso conto che si tratta di testi complessi, eterne testimonianze di una creatività senza limiti. Edgar Allan Poe fu uno scrittore straordinario, un vero pioniere nei generi letterari, capace di comporre poesie (pur non raggiungendo mai il successo) e raffinati testi di prosa. È proprio con le short stories che l’autore ottenne una certa notorietà, dopo aver vinto le iniziali resistenze del pubblico americano. Il libro che ho letto è Mystery Tales, una raccolta dei migliori racconti dello scrittore di Boston, in versione integrale e in lingua originale. Sono solo nove, di lunghezza diversa, distribuiti lungo 188 pagine; in così poco spazio, Poe ha saputo trattare temi assai diversi tra loro. Abbiamo storie che si potrebbero definire inquietanti, se non horror (The Fall of the House of Usher, Ligeia), dove eventi soprannaturali si mescolano con fatti perfettamente normali, tanto che spesso si dubita dell’affidabilità del narratore. Lo stesso si può dire per []The Black Cat[/i], a mio avviso la storia più visionaria e terrificante di Poe, capace di tenermi sveglio la notte da bambino; o per The Masque of the Red Death, altro racconto dove accadono eventi impossibili e non si comprende bene se il narratore sta delirando e distorcendo la realtà. A suo modo sa colpire perfino il brevissimo The Oval Portrait, dove un quadro è capace di rubare la bellezza della donna che ritrae, portandola alla morte. Quante opere sono state influenzate da questi brevi racconti? Poe è stato ammirato da moltissimi autori inglesi che lo hanno preceduto ed è facile trovare nei suoi racconti l’ispirazione per R.L Stevenson e A.C. Doyle. The Gold Bug descrive la laboriosa caccia ad un antico tesoro di pirati, mentre William Wilson racconta la schizofrenia di un giovane, assillato da un “doppio” che lo insegue in ogni parte del mondo, allo scopo di vanificare le sue iniziative. Si scoprirà che il persecutore è solo una proiezione della mente del giovane. Poe si dimostra anche precursore dei romanzi polizieschi, con The Murders in the Rue Morgue e The Purloined Letter, in cui il raziocinio infallibile di Monsieur Auguste Dupin, prototipo di Sherlock Holmes, porta alla soluzione di casi oltremodo misteriosi. Naturalmente questi racconti sono solo una frazione del corpus letterario di Poe, però chi li ha selezionati ha fatto un buon lavoro, offrendo un assaggio variegato della capacità creativa e narrativa dello scrittore americano. Le storie sono molto affascinanti, anche se richiedono dedizione e attenzione per essere seguite nel modo corretto. Il testo inglese è molto complesso, perché Poe usa un lessico ricercato, soprattutto nelle descrizioni. Più volte avrei avuto bisogno di un vocabolario al mio fianco, per poter comprendere appieno le bellissime immagini tracciate dall’autore, ma non volevo rovinarmi la lettura scartabellando un altro libro. Spero tra qualche anno di poter riprovare, forte di una conoscenza migliore del lessico inglese. Il testo è ostico anche perché lo stile elevato è ormai in disuso presso gli anglosassoni; pur sapendo molto bene l’inglese moderno, mi trovo in enorme difficoltà ad orientarmi nei periodi lunghi ed articolati di Poe. Questi racconti meritano lo sforzo necessario per apprezzarli. Potrebbe essere utile procurarsi un testo con note a margine, che chiariscano almeno i punti più difficili. Ad ogni modo, chiunque apprezza lo stile di Poe, oltre all’argomento delle sue storie, farebbe bene a tentare la strada della lingua originale, un percorso impervio ma ricco di meraviglie.
Inviato il: 5/1/2008 10:32
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IVANHOE --- di Walter Scott
Il mio primo contatto con questo romanzo risale alla tenera età di 11 anni, quando fui attratto da una versione “alleggerita”, impreziosita da un bel cavaliere in copertina. Di tale lettura rammentavo poco, nulla più di qualche personaggio, perciò ho ritenuto fosse il caso di rimpolpare la conoscenza di Ivanhoe, che è pur sempre un romanzo famoso della letteratura anglosassone. Walter Scott pubblicò la sua opera più nota nel 1820, che segnalò un deciso cambio di rotta rispetto al precedente ciclo di novelle, ambientato nella familiare Scozia (Scott è nato ad Edimburgo). Ivanhoe si colloca in Inghilterra, durante il regno di Riccardo Cuor di Leone, forse il periodo più gettonato per i racconti epici di un Medioevo più mitico che storico. Infatti, se da un lato l’autore mostra grande accuratezza nel descrivere usi, costumi, mentalità e luoghi dell’epoca, dall’altro si concede un ampio ventaglio di infiorettature ed espedienti volti a rendere il romanzo più colorito. Ad ogni modo, la storia narra il ritorno a casa di Wilfred di Ivanhoe, figlio del nobile sassone Cedric, rimasto per lunghi anni in Terrasanta al fianco di re Riccardo. Come si sa, nel frattempo la nobiltà normanna si è coalizzata attorno al fratello di Riccardo, il principe Giovanni, con l’intento di usurpare il trono del sovrano assente. D’altra parte, gli oppressi Sassoni vorrebbero approfittare dell’occasione per ribellarsi e ristabilire una dinastia autoctona sul trono. Il cavaliere di Ivanhoe rientra in patria sotto mentite spoglie, perché caduto in disgrazia per aver disubbidito al severo padre; l’agnizione avviene al torneo di Ashby-de-la-Zouche, dove Wilfred si distingue per il suo valore. Gravemente ferito, egli viene assistito dall’ebreo Isacco di York e da sua figlia Rebecca, abile guaritrice, che si innamora di lui. Il cuore di Ivanhoe appartiene però alla sassone Rowena, e non potrà mai rivolgere il proprio amore verso una disprezzata ebrea. Nel frattempo, alcuni nobili normanni assaliscono e catturano Ivanhoe, Rebecca ed altri personaggi, tenendoli prigionieri in un maniero. Ciascun nemico è mosso da diverse intenzioni, ma il più deciso di tutti è il templare Brian de Bois-Guilbert, infatuato della bella Rebecca. Il porcaio Gurth e il buffone Wamba, fedeli servitori di Cedric, trovano aiuto presso i fuorilegge guidati da Robin Hood, che pongono il castello sotto assedio. Il templare riesce a fuggire con Rebecca, ma al precettorio, i due sono scoperti dal Gran Maestro, che accusa l’ebrea di aver plagiato il templare con la magia. Rebecca chiede un combattimento per testimoniare la propria innocenza ed è Wilfred a scendere in lizza contro Bois-Guilbert; l’infido templare è così tormentato dalle proprie passioni contrastanti che cade fulminato dalla sella. Il romanzo si conclude con il ritorno di Re Riccardo e le nozze di Ivanhoe e Rowena. Lo scontro tra le etnie normanna e sassone è il primo nucleo del racconto; lo scontro tra cristianesimo dominante ed ebraismo sottomesso è il secondo. In entrambi i casi, Scott prende nettamente le parti degli oppressi, siano essi i Sassoni, rozzi ma puri nei sentimenti, al contrario dei crudeli e sleali Normanni, oppure gli Ebrei, gli unici depositari di qualche principio etico, laddove i Cristiani danno sfoggio di intolleranza, intemperanza e superstizione. Su questi punti fermi viene costruita una storia semplice eppur appassionante, con qualche moderato colpo di scena e una miriade di dialoghi, che spaziano dal drammatico al comico. I personaggi di Scott sono numerosi ma è facile affezionarsi a loro, perché ben descritti e caratterizzati; tra tutti non posso che adorare il giullare Wamba, il gaudente Frate Tuck e la drammatica figura di Bois-Guilbert. La prosa del romanzo è agile, descrittiva quel tanto che basta, la struttura narrativa è lineare e si spezza occasionalmente per generare un minimo di suspence. Per il resto, le principali attrattive del libro risiedono nel naturale corso degli eventi e nella scorrevolezza della lettura. Trovo che Ivanhoe sia un ottimo romanzo di intrattenimento, con un pizzico di accuratezza storica capace di renderlo credibile, tuttavia si concentra eccessivamente sugli stereotipi per affrancarsi dalla condizione fiabesca. Una bella immersione in un Medioevo fantastico, sede di potenti passioni, dame, cavalieri, banditi gentiluomini ed eroici buffoni, ma un po’ troppo sbilanciato verso la fantasia per essere un romanzo storico.
Inviato il: 5/1/2008 10:43
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ORLANDO FURIOSO --- di Ludovico Ariosto
Nel mio periodico frugare nelle opere somme della letteratura italiana, ho recentemente imboccato il filone del poema cavalleresco, che unisce la pregevole musicalità del carme a tematiche fantastiche ed eroiche. Nel mio approccio a questo libro volevo anzitutto stabilire se è ancora un’opera che può entusiasmare ed appassionare un uomo moderno che ama abbandonarsi all’immaginazione. “O gran bontà de’ cavallieri antiqui!”. Dopo aver affrontato le 500 pagine del poema, ciascuna contenente più o meno 10 strofe da 8 versi scritte in piccolo, non posso che proclamarmi strabiliato per il piacere avuto da questa lettura. Penso dipenda molto dal mio amore per la ricercatezza stilistica, per la musicalità del testo e per l’enfasi, delle quali Ariosto è un maestro, tuttavia questo non basta a giustificare la soddisfazione. Leggendo la Commedia di Dante Alighieri, datata 1306 (il Furioso è del 1532), non ho potuto classificare l’esperienza come felice, nonostante i requisiti fossero soddisfatti. Probabilmente il motivo sta in parte nel lessico ariostesco , molto più vicino a noi di quanto si possa immaginare, tanto da rendere superflue le glosse, e in parte nei temi trattati. Se la Commedia è un documento storico importantissimo, per i continui riferimenti a fatti e personaggi, l’Orlando Furioso è un poema d’intrattenimento, dove si alternano le vicende di una miriade di personaggi, racconti di fatti remoti o recenti, poche digressioni storiche, qualche divagazione morale dell’autore e gli immancabili elogi al committente dell’opera (il cardinale Ippolito d’Este). È un’opera celebrativa degli Estensi, nella quale Ariosto racconta le avventure dei mitici antenati dei signori di Ferrara. Sulla trama va fatta una precisazione. Come in tutti i poemi cavallereschi che ho letto, il titolo lascerebbe pensare che il protagonista sia il paladino carolingio Orlando, mentre scorrendo le pagine si scopre che il suo ruolo è assai marginale. Molto più spazio è dedicato alle vicissitudini del prode Ruggiero e della sua amata Bradamante, antenati mitici degli Estensi e perciò veri protagonisti del poema. Riassumere la trama non è semplice, perché è l’intreccio delle personali avventure di almeno una quarantina di personaggi, ciascuno importante e ben caratterizzato, secondo me. Carlo Magno è assediato a Parigi dall’esercito saraceno di Agramante, mentre i paladini sono dispersi per la Francia; in particolare, Orlando sta inseguendo la sua amata Angelica, che lo sfugge e alla fine si innamora di Medoro, facendo impazzire Orlando. Lungo tutto il poema si ha il reciproco inseguimento tra Ruggiero e Bradamante, che continuano a perdersi e ritrovarsi per una serie di sfortunati casi. In una di queste avventure essi liberano l’inglese Astolfo dalla maga Alcina; questi sarà il personaggio risolutore, che viaggerà in Etiopia e troverà il paradiso terrestre, dove San Giovanni gli spiega come recuperare il senno d’Orlando e radunare un esercito per soccorrere Carlo. Questo in estrema sintesi. È mirabile come Ariosto riesca a gestire le avventure di questi e molti altri personaggi, intrecciandole in un groviglio apparentemente confuso, ma che poi si svolge con una consequenzialità disarmante, una vera sorpresa per il lettore. Un continuo succedersi di colpi di scena, di sconvolgimenti, di effimeri successi, tanto da non permettere mai di annoiarsi, a patto di saltare la lettura delle parti celebrative che per un lettore moderno sono incomprensibili e di scarso interesse. Di certo non occorre che sia io a ribadirlo, ma l’Orlando Furioso è un poema di estrema qualità artistica, avvincente, appassionante, che merita il suo posto di rilievo nella letteratura italiana. Aggiungo che a mio parere oggi si pone poco accento su queste opere, destinate nelle scuole alla pura citazione. Per chi cerca un’opera amena di gran valore, in bello stile, ma ricca di spunti di riflessione, questo è un libro che premia il coraggio del lettore.
Inviato il: 5/1/2008 10:45
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ORLANDO INNAMORATO --- di Matteo Maria Boiardo
La lettura dell’Orlando Furioso si è rivelata un’esperienza positiva ed affascinante, tuttavia la vicenda iniziava in medias res e in tutto il poema si trovavano riferimenti alla fonte di ispirazione, ossia quel poema cavalleresco che porta il titolo di Orlando Innamorato, opera incompiuta del poeta ferrarese Matteo Maria Boiardo. Ho ritenuto necessario riannodare le fila e cimentarmi nella lettura di questa “introduzione” all’opera di Ariosto. Anzitutto, va precisato che l’Orlando Innamorato non ha nulla da invidiare al Furioso, né in fatto di mole cartacea (3 libri, rispettivamente di 29, 31 e 9 canti, ciascuno formato in media da 60 stanze da 10 versi), né per freschezza ed ispirazione. Nemmeno gli intenti del poema sono molto diversi: lo stesso Boiardo si era prefissato di celebrare la nobile dinastia degli Este (l’invenzione di personaggi come Ruggiero e Bradamante è tutta sua); purtroppo non ne ebbe modo, dato il periodo burrascoso in cui visse, gli impegni governativi cui dovette attendere e una malattia, che portò il poeta a spegnersi tre mesi dopo aver vergato le ultime rime del terzo libro, rimasto tristemente incompiuto. Una importante differenza con l’opera di Ariosto è però costituita dalla minor precisione dell’Innamorato, sia nelle intenzioni sia nello snodo delle vicende narrate. Boiardo non manifesta fin dall’inizio il desiderio di glorificare gli Estensi, ma si chiarisce le idee strada facendo. Lo stesso sembra avvenire per la trama, gestita in maniera meno precisa rispetto all’Ariosto, che invece riusciva ad abbandonare certi personaggi per tempi lunghissimi per poi farli riapparire nel momento più inaspettato, sempre con coerenza ed eleganza. Credo però che il Boiardo non meriti alcun rimprovero (men che meno da parte mia), poiché il tempo a sua disposizione per la revisione fu esiguo o non ci fu affatto; inoltre, l’Ariosto si poté avvalere del gran lavoro del suo predecessore, del quale ha colto e sviluppato gli spunti letterari. Nell’Orlando Innamorato abbiamo come protagonisti principali Orlando, Ranaldo e Angelica, le cui schermaglie amorose e avventure strabilianti occupano buona parte dei primi due libri. Verso la metà del secondo e nel terzo inizia a subentrare la guerra che il re saraceno Agramante vuole muovere contro re Carlo Magno e la cristianità. Prima di oltrepassare il mare, egli ha bisogno di un giovane guerriero, che secondo una profezia tiene in mano le sorti della guerra. Costui è Rugiero, pupillo del negromante Atalante, dalle cui paterne cure dovrò essere sottratto per unirsi alla spedizione. Giunto in Francia, Rugiero riesce con le sue gesta a sbaragliare le difese del castello di Montealbano (signoria di Ranaldo) e ad aprire ai saraceni la strada per Parigi. A questo punto, Rugiero incontra Bradamante e tra i due è presto amore. L’amore, in tutto il poema, è la forza principale che stimola i capovolgimenti di fronte, le coraggiose imprese e i gesti magnanimi. I due sono presto divisi e spetterà all’Ariosto narrare l’epilogo della guerra e come i due amanti si ritroveranno, perché qui il poema si interrompe. L’opera di Boiardo è essenzialmente un geniale esercizio di arte poetica, finalizzata alla narrazione di vicende epiche ed amorose. Inoltre, un gran merito di questo poeta è aver dato via libera all’invenzione letteraria, aggiungendo nuovi luoghi, personaggi e vicende a quelle ormai trite del ciclo carolingio. Sfortunatamente, nel periodo ‘500-‘700 si affermò un certo manierismo nella letteratura, dove l’inventiva aveva perso peso rispetto alla capacità di elocuzione poetica. Data la poetica non raffinatamente classica di Boiardo, l’autore è stato per lungo tempo nell’oblio, tanto che il suo Orlando Innamorato fu soppiantato da un Rifacimento del Berni, più conforme alle regole della poesia allora vigenti. Solo la critica post-illuministica lo ha riscoperto e rivalutato. Da parte mia posso dire che questo poema è un’introduzione essenziale all’Orlando Furioso e per certi versi può risultare molto più gradevole. Boiardo non ama dilungarsi troppo a narrare gli episodi (vizio nel quale Pulci ed Ariosto eccedono spesso) e preferisce una poetica schietta e fatta di tocchi rapidi ed efficaci. In certi casi gli si può però imputare una risoluzione meccanica degli eventi ed uno scarso realismo, retaggi del poema medioevale superati definitivamente solo con Ariosto. A me, comunque, certe ovvietà, incoerenze ed esagerazioni non hanno dato fastidio, soprattutto a fronte di un racconto vario e ricco di belle immagini e curiose situazioni. Se volete leggere l’Orlando Furioso questo libro può essere anteposto o posposto. Io vi suggerirei di leggere prima Boiardo, in modo da apprezzare meglio l’evoluzione “storica” della poetica cavalleresca passando dal primo al secondo autore. I due poemi vanno però visti come una singola opera (parola di T.Tasso), perché possiedono lo stesso intento e la stessa sensibilità, pur conservando notevoli ma in un certo senso interessanti differenze.
Inviato il: 5/1/2008 10:48
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PADRI E FIGLI --- di Ivan Turgenev
Nella vasta schiera degli autori russi, Ivan Turgenev non è certo il più blasonato e popolare, almeno in terra straniera. Ho appreso il suo nome dai cruciverba, un passatempo oggi uscito di moda, ma che conserva qualche velleità culturale. Padri e figli è la sua opera magna, che ho reperito nella mia raccolta Mondadori “I capolavori della letteratura moderna”. Sono solo 210 pagine, mal che vada non avrò perso molto tempo. È andata bene, invece, perché il libro mi è piaciuto e ha riservato stimoli interessanti. È stato pubblicato ed ambientato in un periodo di grandi cambiamenti nella realtà russa: il 1862 cadeva appena un anno dopo la Grande Data (19 febbraio 1861), che segnò l’abolizione della servitù della gleba nell’impero dello zar. Il fermento culturale e i movimenti intellettuali raggiunsero il loro apice. In questo contesto due studenti fanno reciproca conoscenza: sono il giovane Arkadij Kirsanov, figlio di un proprietario terriero, e il più maturo Evgenij Bazarov, figlio di un medico dell’esercito. Il maggiore dei due è un personaggio molto singolare: è un nichilista, non presta fede a nulla e non si riconosce in nulla, gettando scalpore tra la gente la cui mentalità è legata alla tradizione. Arkadij gli è completamente succube e non fa che condividere il suo pensiero, anche quando Bazarov entra in disputa con Pavel, zio di Arkadij e fratello di Nikolaj Kirsanov. Gli studenti si stancano presto di stare in campagna a casa di Arkadij; alla prima occasione vanno in città, dove per caso conoscono l’affascinante, ricca ed emancipata vedova Anna Odincova. Costei li invita nella propria tenuta, dove trascorrono settimane felici. Qualcosa però non funziona. Bazarov perde la sua abituale sicurezza e si fa strano: in breve, è innamorato di Anna Odincova. Da parte sua, Arkadij diviene amico della sorella di Anna, Katja, e si estrania sempre più da Bazarov e dal suo comportamenti. I due decidono di andarsene, perché Evgenij deve visitare i suoi genitori. Da qui in poi ci sarà una rapida serie di colpi di scena, che concluderà la storia in modo inatteso. Il nodo tematico di Padri e figli è proprio la contrapposizione tra le figure degli anziani parenti e quelle della nuova generazione. Turgenev desiderava mostrare quanto fosse stridente il contrasto tra i residui del vecchio pensiero aristocratico russo, riposto nelle figure per nulla negative di Nikolaj, Pavel e dei coniugi Bazarov, e il dinamismo e la cultura del tutto nuova dei giovani. Nonostante condivida il ruolo di protagonista con Arkadij, è Bazarov la figura principale. Bisogna ricordare che il romanzo fu molto criticato per questo personaggio, ritenuto sommamente esecrabile per il suo cinismo e i comportamenti esasperati. Bazarov è un uomo estremamente solo, a causa dei suoi ideali portate all’estremo; ciononostante tutti gli sono succubi, lo rispettano e lo temono, con l’eccezione di Pavel Kirsanov. La sua vicenda somiglia molto a quella di un eroe tragico, coerente fino in fondo con le sue idee e che rinuncia alla felicità per esse, a differenza di Arkadij. Il testo è molto semplice, conciso, eppure sufficientemente pieno e brillante. Può essere utile riprendere coscienza del tema dello scontro generazionale, che negli ultimi tempi si è notevolmente affievolito ed è stato sostituito dal silenzio reciproco. Padri e figli è interessante anche per avere un quadro delle reazioni ai grandi sconvolgimenti sociali e culturali del secolo diciannovesimo, che si è contraddistinto per l’abbondanza e la rapidità di questi avvenimenti. Sebbene non sia un romanzo storico nel vero senso della parola, è comunque un documento fatto di sensazioni e riflessioni in tempo reale. Davvero per tutti i lettori.
Inviato il: 5/1/2008 10:50
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IL PENDOLO DI FOUCAULT --- di Umberto Eco
L’esigenza di rileggere questo testo, passatomi fra le mani nel 2001, è stata suscitata da The Da Vinci Code. Sentivo il bisogno impellente di ripulirmi dalle fandonie di Brown e di apprezzare un vero romanzo incentrato sull’esoterico. Il pendolo di Foucault è datato 1988 e si presenta come uno dei libri di narrativa più complessi, ricchi, articolati, stilisticamente variati che io abbia mai letto. Il racconto abbraccia quasi vent’anni, dal 1968 al 1984, con le dovute cesure temporali. Il protagonista è Casaubon, detto Pim, un laureato in lettere nel periodo della “rivoluzione giovanile”; mentre sta scrivendo una tesi di laurea sul processo ai Templari, fa la conoscenza di Jacopo Belbo, un redattore piuttosto colto e con la passione segreta per la scrittura. Saputo l’argomento della tesi, Belbo invita Casaubon alla casa editrice Garamond, dove un personaggio strampalato, il colonnello Ardenti, gli presenta uno dei tanti tentativi di risolvere il mistero dei Templari, che prevede un Piano di proporzioni storiche immani, il cui scopo è la conquista del mondo. Liquidato lo scrittore, Casaubon, Belbo e l’ebreo Diotallevi, appassionato di cabala, si divertono a congetturare sul Piano proposto dal colonnello. I tre si separano, perché Belbo si trasferisce in Brasile, ma le loro vite continuano ad essere inspiegabilmente sfiorate dall’esoterico. Ardenti scompare in circostanze misteriose, mentre Casaubon incontra il signor Aglié, che lo introduce ai riti occulti afro-americani e alle leggende dei Rosa-Croce. Ritornato in Italia, Casaubon accetta di lavorare per la Garamond. Un’idea dell’intraprendente proprietario della casa editrice riporta in scena l’occulto, assegnando ai tre amici la selezione deglii autori per una collana esoterica. Ascoltare storie fantasiose e folli finisce per stancare i tre redattori; per alleviare la noia essi scelgono di congetturare a loro volta, modificando e rendendo più suggestivo il Piano dei Templari proposto anni prima da Ardenti. Belbo viene sempre più coinvolto dal gioco, per il fatto che la cospirazione segreta è verosimile. I tre autori sanno che è tutta un’invenzione, ma qualcuno li prende sul serio... Il lettore che giunge al termine di questo romanzo può dirsi iniziato a tutti i più grandi misteri esoterici della storia umana. Mentre i protagonisti inventano il Piano, l’autore ha modo di comunicare una miriade di nozioni, tutte di grandissimo interesse e presentate con distacco e rigore delle fonti (a differenza di Mr. Brown, dove i personaggi sono sempre molto entusiasti dei loro segreti da quattro soldi). Cabala, fisica, crittografia (quella seria!), alchimia, simbologia, Templari, Rosa-Croce, Massoneria, Assassini di Alamut, sette segrete, druidi, fattucchieri, medium, spiritismo, animismo; il Piano è una costruzione fantasiosa che comprende e correla ogni cosa. È davvero affascinante apprenderne la costruzione, poco importa se si rischia di perdere il filo. La prosa di Eco è molto ricercata, involuta, originale e dirompente; la proprietà lessicale è spinta ai limiti della pazzia e penso che non sarò mai in grado di comprendere tutti i vocaboli di questo testo. Al contrario de il nome della rosa, il pendolo di Foucault è un racconto poco accattivante per il lettore in cerca di una bella storia. È una manna per chi adora essere erudito mentre legge per divertirsi, o stimolato alla riflessione su tematiche mai fuori moda, come la credenza nell’esoterico, che interessa ancora l’uomo post-illuministico. L’azione è molto blanda e ristretta a poche pagine; non si tratta di una suspence-novel o di un giallo. È un enorme compendio di informazioni, presentate in una forma più accattivante del manuale. In più, attraverso i personaggi, Eco riesce a comunicare le sue opinioni, mantenendo una prospettiva lucida e razionale. In certi punti quasi illeggibile, è un romanzo che sa appassionare ed annoiare allo stesso tempo, perché non resta focalizzato sulla vicenda ma divaga per dare profondità ai personaggi, che sono ritratti in dettaglio. Lo consiglio a chi cerca una prospettiva più realistica ed attenta sugli arcani dell’umanità ed è disposto a faticare per averla. Insomma, a chi non si accontenta della tronfia mediocrità di Dan Brown.
Inviato il: 5/1/2008 10:54
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POESIE DI OSSIAN --- di Melchiorre Cesarotti
Incapace di procurarmi la versione originale di Macpherson, o una sua traduzione recente, mi sono affidato al lavoro appassionato e pregevole di Melchiorre Cesarotti, religioso padovano che nel XVIII secolo ha saputo accogliere le nuove proposte dell’Illuminismo e porre le basi del Romanticismo ottocentesco. Purtroppo, ho trovato solo una selezione dell’opera, che probabilmente è molto più vasta, comprendente solo un poema e tre canti brevi. A detta del curatore, Emilio Bigi, si tratta di una sapiente cernita che mette in luce le parti migliori del lavoro. Peccato che la sua introduzione sia un testo molto confuso e noioso. Le Poesie di Ossian sono state tradotte dall’inglese e pubblicate per la prima volta nel 1763, ma in seguito ci sono state altre edizioni rivedute ed ampliate. Questo è quanto ho potuto leggere: Fingal è un poema epico in sei canti, dove si narra dell’invasione tentata da Svarano, Re di Loclin (lo Jutland, in Danimarca), ai danni dell’isola di Erina (Irlanda), difesa da Cucullino, reggente in carica perché il legittimo erede è ancora un bambino. Le difese degli irlandesi sono strenue ma inefficaci; solo la venuta del possente eroe di Caledonia (Scozia occidentale), Fingal, riuscirà a capovolgere le sorti della guerra. Il tutto è un continuo alternarsi di scene di lotta, dialoghi, storie raccontate dai bardi e preziosi scorci di antica cultura celtica. Cartone racconta la tragica vicenda dell’omonimo guerriero, giunto a sfidare Fingal e i suoi campioni per un’offesa subita e che inconsapevolmente uccide il padre Clessamorre, dal quale è mortalmente ferito. I Canti di Selma sono tre canzoni bardiche di vario argomento (amore, lamento funebre). La Notte è un esempio di poesia improvvisata, frutto dell’ispirazione e dell’orecchio musicale di cinque cantori, ospitati per la notte da un signore, a patto che ciascuno componga un canto adatto al momento. Si tratta di liriche dallo spiccato gusto tragico, in cui si nota una gran rassomiglianza di argomenti, stilemi e luoghi comuni con i testi omerici. Oggi non ci sono più dubbi sul fatto che questi poemi non siano stati veramente composti dal mitico Ossian, ma risalgano a pochi secoli prima di Macpherson. Ad ogni modo, le vicende sono appassionanti e denotano i tratti particolari della cultura nordeuropea, sebbene la mitologia e il magico ne restino esclusi. Il testo poetico è stato rielaborato molto rispetto all’originale, poiché Cesarotti non desiderava una traduzione letterale, ma la produzione di un’opera adeguata a convogliare nuovi concetti ed ambientazioni al pubblico italiano, rispettandone il gusto per lo stile. Molto difficile da leggere, perché conserva la metrica rinunciando alla rima, la versione di Cesarotti è un lavoro degno di nota, che pone interessanti quesiti sul problema della traduzione. In questo senso, è utile leggere la prefazione dell’autore (molto più breve e sensata di quella di Bigi), che porta con sé il manifesto dei suoi intenti. Allora un traduttore non era semplicemente un conoscitore di una lingua straniera, ma era un intellettuale di gran capacità. Oggi che i letterati sono in via d’estinzione, ecco che le trasposizioni linguistiche sono divenute un lavoro meccanico, senza trasporto e contributo stilistico da parte dell’autore, nella maggior parte dei casi. Ciò non toglie che l’italianizzazione dei nomi strappi qualche sorriso (Carthon diventa Cartone, Cuculhain è Cucullino). Il mio giudizio finale? Un’opera più interessante per la forma che per il contenuto. A chi fosse in procinto di affrontare Ossian e i suoi racconti, consiglio di procurarsi la versione inglese originale o una sua traduzione recente, riservando eventualmente Cesarotti come compendio finale.
Inviato il: 5/1/2008 10:59
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