Da anni i misteriosi stregoni dell'Isola Solani proteggono la popolazione locale dai pericoli. Ma ora sembra che il loro potere sia stato usurpato. Una forza maligna imperversa sull'isola, un male che sembra aver potere sulla vita e sulla morte stessa! C'è urgente bisogno di un eroe che vada all'Isola Solani e scopra che cosa è accaduto ai maghi. Sarai TU quell'avventuriero? Chi può dire quale terribile destino ti attende sull'isola dove regna la morte? C'è solo un modo per scoprirlo. Hai abbastanza coraggio per risolvere il mistero dell'Isola Solani?
Dopo il giro di boa del cinquantesimo numero ritroviamo Keith Martin, nel primo di due episodi consecutivi (anche Night Dragon è suo). Non alimento però false speranze: questo autore ha scritto di molto meglio. Il problema di Martin è l’aumento progressivo ed esasperato del tecnicismo dei suoi libri, senz’altro curati in ogni minimo particolare e desiderosi di dare al lettore tutto il pane che i suoi denti possono masticare, ma dimentichi del fatto che lo stomaco ha una capienza limitata. Se di alcuni librogame è giusto lamentarsi della brevità del true path rispetto ai 400 paragrafi complessivi, con Island of the Undead si è raggiunto l’eccesso opposto. Per capire dovremo entrare nei dettagli.
Non perdo troppo tempo sulla trama: brevemente, la magia protettiva garantita dai maghi dell’isola di Solani è svanita, e nella zona si odono racconti di morti viventi. Una spedizione di pescatori, tra cui noi, parte per l’isola e fa naufragio; siamo l'unico sopravvissuto, e già che siamo in ballo, decidiamo di chiarire il mistero, sebbene la logica suggerisca al lettore che non siamo assolutamente la persona adatta a farlo. Anche perché un’avventura simile sarebbe difficile per l’avventuriero più ardito. Il true path di Island of the Undead non è solo rigoroso al millimetro, ma è colossale: occupa all’incirca 250 paragrafi, prevede di raccogliere una quarantina di oggetti, e contiene più nomi e cose da fare di qualsiasi altro Fighting Fantasy che mi venga in mente. Sulla carta è una buona cosa; nella pratica, è una faticaccia ingrata e non vale il tempo e le energie profuse per risolverlo. Martin probabilmente si è consumato nel pianificarlo e scriverlo, visto che giocando traspare tutta l’intenzione di consumare anche il fruitore, che in realtà voleva solo divertirsi per qualche ora.
Le regole extra, un classico irrinunciabile del nostro autore, aggiungono un’altra bella palla al piede. L’idea che si perda 1 punto di Abilità se si combatte senza uno scudo era già stupida in Tower of Destruction; qui è ancora peggio, perché si accompagna al fatto che all’inizio siamo armati di coltello e non di spada. Ciò significa che dopo aver colpito dobbiamo tirare ancora un dado, e se facciamo 1-4, il danno è di 1 punto invece che 2. Per prendere una spada dobbiamo affrontare almeno due combattimenti, di cui uno al primo paragrafo; per prendere lo scudo dobbiamo affrontare un nemico di Abilità 9, Resistenza 11 che ci uccide automaticamente se ci colpisce tre volte. Vedete che è frustrante? Già così (e siamo solo al terzo combattimento) è chiaro che per avere un minimo di sicurezza non si può partire con meno di Abilità 11. Ma in seguito è anche peggio: per finire Island of the Undead bisogna affrontare più di venti duelli, e molte Resistenze superano i 10 punti. No, signor Martin, tirare dadi di continuo NON è divertente. Inoltre c’è anche un punteggio nuovo, quello di Presenza, che indica “la forza della tua personalità e la tua volontà di sopravvivere”. Esattamente come l’Onore di Tower of Destruction, è utilizzato a cacchio: è indispensabile averlo alto se si vuole ottenere informazioni dai personaggi potenzialmente amichevoli, ma in alcuni casi avere successo nel tiro significa attirare i nemici, e via con altri combattimenti. Non ha senso che un punteggio sia a doppio taglio, quando un suo alto valore è fondamentale per finire l’avventura.
Anche al di fuori del regolamento, Island of the Undead abbonda di errori e/o eccessi di design. Molto spesso la conquista di qualcosa di buono implica il rovescio della medaglia, sotto forma di un malus o di un combattimento difficile. In ben tre occasioni abbiamo l’opportunità di fare domande a qualcuno, e le risposte possono essere vitali: eppure ci vengono concesse solo due domande per partita, sulle cinque o sei possibili. Ben due enigmi si basano sulla conoscenza di altrettanti nomi, ma quei due nomi sono scritti su una pergamena strappata e sono perciò molto difficili da interpretare dall’illustrazione: inoltre uno dei due è palesemente sbagliato (si legge Cattarelair, ma in realtà è Caltarelair), e non è l’unico caso di enigma illustrato con errore annesso: nel disegno al 97 c’è una N al posto di una K. E a proposito di enigmi: Martin sembra essere stato preso da una furiosa fobia nei confronti dei possibili bari, e ha deciso che ogni stramaledetto oggetto o informazione debba essere abbinato a una prova numerica. Conosci il nome di Tizio Caio Sempronio? Allora somma i numeri delle lettere del suo nome (A=1, B=2, ecc Z=26), moltiplica per X e vai al paragrafo corrispondente. Capite bene che una volta può divertire, la seconda si sopporta; dalla terza in poi è abuso, considerando anche la lunghezza dei nomi e la seccatura di dover ogni volta calcolare a che numero corrisponde ogni lettera. Oppure: se hai il tale oggetto, sai a che numero corrisponde. Moltiplica quel numero per Y e vai al paragrafo relativo. Questa cosa viene richiesta così tante volte che commettere un errore è quasi scontato: io sono rimasto bloccato per un bel po’ perché, pur avendo fatto tutto correttamente, avevo confuso i numeri di due oggetti scritti vicini e, guarda caso, moltiplicando il numero sbagliato finivo comunque ad un paragrafo sensato… che però riguardava un altro punto del libro. Questo per dire lo sfinimento a cui conduce Island of the Undead.
Ma la cosa peggiore è che, comunque, tutta la fatica è superflua: dopo decine di tentativi, centinaia di lanci di dadi, tutte le possibili combinazioni tentate e il cervello prossimo all’avaria, si arriva allo scontro finale che ancora pretende che tu esegua un buon numero di azioni in sequenza perfetta, senza sbagliare. Un minimo errore e zac!, ti aspetta una morte istantanea. E se anche, per caso o dopo altri dieci tentativi, riuscissi ad imbroccare le mosse giuste, la potenza del nemico finale è comunque tale da affidare l’eventuale, remota, vittoria alla fortuna. Arrivato a questo punto non ho più retto e ho deciso di barare per vincere, e sapete la cosa buffa? Al paragrafo 400 l’autore ha il coraggio di dire: “Devi uscire da questi sotterranei, e la strada verso casa sarà senza dubbio pericolosa; dopo tutto quello che hai passato, però, pensi di potercela fare”. Sarebbero parole sante, se non suonassero come un’ultima beffa.
Lo ripeto: non ne vale la pena (e che pena). Se c’è mai stato un librogame con un eccesso di cose da fare, è esattamente questo. Un true path di tentativi ed errori è accettabile, se gestito come fa Ian Livingstone; ma qui ci si aggiunge una caterva di combattimenti infiniti, una quantità paurosa di elementi essenziali in balìa del capriccio dei dadi, punizioni gratuite, gli stessi meccanismi ripetuti alla nausea, troppi dati e variabili da tenere in conto. Non trascorre paragrafo senza che si debba tirare i dadi, scrivere qualcosa sul registro o compiere una scelta che influenzerà l’intero corso dell’avventura. In questo marasma di input, come può esserci anche spazio per una trama? Infatti non c’è: quel poco che viene raccontato è così intimamente connesso alle meccaniche di gioco che è impossibile considerarlo racconto. Non parliamo del finale, che oltre che beffardo è cortissimo e non ricompensa minimamente gli sforzi fatti. A parte i disegni del solito sfavillante Russ Nicholson non vedo altri motivi per consigliare Island of the Undead, che è più interessante di Tower of Destruction ma è anche decisamente più fallato, e si “merita” dunque lo stesso voto.