| Categoria: Librogame Stranieri Fighting Fantasy
|
Titolo: 50 - Return to Firetop Mountain | Valutazione: 4.00 Letture:1355 | Ian Livingstone | Il diabolico regno del malvagio stregone Zagor ebbe fine dieci anni fa, per mano di un eroico avventuriero che affrontò gli infiniti pericoli di Cima Infuocata. Grazie al potere della magia nera, il folle stregone è tornato dalla morte e intende scatenare la sua vendetta su tutta Allansia. Un coraggioso avventuriero - TU! - deve entrare nell'ostile labirinto e fare nuovamente giustizia contro il signore di Cima Infuocata! |
Valutazione media:
|
(1)
|
|
(10)
| |
Data pubblicazione 10/12/2007
|
|
Inviata da: EGO il 31/5/2009 |
|
|
|
|
Valutazione generale:
| |
4
|
|
Nelle intenzioni originali dell’editore Puffin, Fighting Fantasy 50 avrebbe dovuto essere contemporaneamente il numero del decennale e la conclusione della collana. Per questa ragione si pensò bene di celebrare l’evento riportando i lettori a Firetop Mountain, là dove tutto era iniziato nel 1982, e di affidare la stesura del libro ai padri fondatori. Purtroppo Steve Jackson non poté fare un’eccezione per l’occasione, e tutto il lavoro cadde nelle mani di Ian Livingstone, la cui evoluzione come autore di gamebook si è fermata molto presto, a scapito del gran numero di opere.
È quindi scontato che non ci sia assolutamente niente di innovativo o celebrativo in Return to Firetop Mountain. Il prologo, decisamente banalotto e svogliato, ci informa che lo stregone Zagor è resuscitato dalla morte grazie a un incantesimo malvagio che aveva lanciato su di sé come, diciamo, assicurazione contro gli infortuni, e sta facendo rapire gente dai villaggi vicini per prelevare i pezzi necessari a ricostruire il suo corpo. Noi siamo il solito vecchio avventuriero di passaggio tanto in voga nei primi Fighting Fantasy (ma non lo stesso che sconfisse lo stregone dieci anni prima) e, dietro la richiesta dei paesani disperati, accettiamo di andare alla montagna dalla cima rossa per ammazzare Zagor.
Ammettiamolo, il twist horror degli esperimenti alla Frankenstein poteva aggiungere un po’ di colore al racconto; questo nelle mani di Stephen Hand, però, non in quelle di Livingstone la cui specialità è creare dungeon. E anche così, si può solo constatare che questo è il libro meno curato e ispirato di Ian da moltissimo tempo, se non proprio il più sciatto in assoluto, come se non ci credesse o tenesse molto neppure lui. La caratterizzazione dei personaggi secondari, che non sono pochi, è praticamente nulla: entrano in scena, si presentano, fanno il loro dovere in un paio di paragrafi e se ne vanno. Perfino il vecchio Yaztromo, il comprimario più longevo di tutto Fighting Fantasy, è cambiato ed è adesso burbero e sbrigativo, laddove un tempo era un buon clone di Gandalf. Ma la superficialità non risparmia niente: i paragrafi sono tutti brevi e impersonali, le descrizioni ridotte al minimo indispensabile per capirci qualcosa, e in definitiva il libro è sottile, assai misero a fianco dei corposi volumi che lo precedono direttamente e che sul piano della scrittura offrono tutti, senza esclusione, materiale di tutt’altra classe e impegno.
La qualità essenziale di cui Return to Firetop Mountain difetta in modo imperdonabile è la credibilità. Alcune parti del dungeon, soprattutto le prime, riprendono, mostrandone il degrado, una manciata di luoghi e strutture già visti nel primo volume, descrizioni identiche comprese; ma questo è l’unico tocco di atmosfera e nostalgia che l’autore si sforza di proporre. Il resto del labirinto è il solito intrico di porte e corridoi che Livingstone ha proposto in mille salse, e non solo è di una banalità orribile, ma è ridicolo e quel che è peggio, lo sa perfettamente. In un solo paragrafo, il 316, Ian mette su carta una dichiarazione d’intenti e una bugia clamorosa. Yaztromo ci informa che, usando l’incantesimo di resurrezione, Zagor ha anche creato i mezzi della propria rovina, perché nella montagna sono apparsi i denti di drago che contengono il potere per affrontare lo stregone. Ma guarda un po’ che caso… Qualsiasi lettore che conosca un po’ Livingstone capisce al volo che con questa idea l’autore sta praticamente dicendo “ora voi vi aspettate un labirinto dove io ho nascosto questi oggetti, perciò io vi chiedo carta bianca per nasconderli in ogni modo che mi verrà in mente”. Questa è una promessa scolpita nel granito; la balla pazzesca è che Yaztromo sostiene che di quei denti basterà trovarne almeno due, mentre poi, come è inevitabile, averli tutti è condizione sine qua non per la vittoria finale. Con che faccia si può dire una cosa simile in un libro dedicato ai fan di vecchia data, che la sanno ormai molto più lunga dell’autore stesso?
Con la stessa faccia, direi, con cui si mettono insieme i pezzi di un dungeon prevedibile come le tasse, compresa la parte che lo precede. “Vedi qualcosa che luccica in un cespuglio, ti fermi a dare un’occhiata o prosegui?” è solo la prima di una serie di alternative ingenue che non si dovrebbero più vedere in un librogame del 1992; sfortunatamente tutto il libro si basa su scelte simili, perché naturalmente, essendo in sostanza una caccia a tesori molto piccoli, dovremo esplorare ogni angolino visibile, accettando l’ineluttabile destino che ci vedrà raccogliere molti oggetti fatalmente dannosi prima di scoprire che cosa va fatto e che cosa, invece, no. Un Livingstone scatenato costruisce un true path contenente ben oltre trenta oggetti, di cui molti perfettamente inutili ma comunque recanti il numerino d’ordinanza, per farci credere che serviranno a qualcosa. Ciò dimostra scarso rispetto per i giocatori che non hanno più otto anni e pensano che in un librogame ci sia qualcosa di più entusiasmante di accumulare cianfrusaglie, e dimostra anche poca considerazione del Foglio d’Avventura e dello spazio che riserva.
Dicevo che il dungeon è prevedibile, e non ci vuole molto a capire perché. Se uscire da una stanza mi fa balzare in due paragrafi allo stesso punto in cui invece posso arrivare seguendo un percorso che dura una trentina di sezioni e mi costringe ad affrontare una mezza dozzina di mostri, quanto dovrei essere ottuso per non capire quale delle due è la strada giusta? Se in una lista di dieci oggetti acquistabili trovo elencati uno specchio, dell’aglio e un pugnale d’argento, come faccio a non aspettarmi di incontrare una medusa, un vampiro e, se non proprio un lupo mannaro, qualche creatura magica vulnerabile all’argento? E infatti. Laddove non sembra scritto da un giovane lettore al suo primo tentativo di gamebook amatoriale, Return to Firetop Mountain è semplicemente sciocco, ingiusto o addirittura errato. Vista la facilità con cui si trova la strada giusta, in due o tre occasioni Livingstone ricorre al suo vecchio, infame trucco del bivio dove una delle due direzioni nasconde una trappola mortale, oppure conduce a un oggetto importante per poi farti tornare indietro e prendere l’altra diramazione, che invece è a senso unico. Ovviamente sono cascato come una pera in entrambe le situazioni, ma la cosa che più mi ha dato fastidio è che, trovando poi la svolta giusta nella partita successiva, ho scoperto che uno dei preziosissimi denti di drago era nascosto in una slot machine nella stanza di una strega, e la slot funzionava solo ed esclusivamente inserendoci quelle due uniche monete d’argento casualmente trovate da un’altra parte. Posso sapere per quale stramaledetto motivo una strega dovrebbe tenere un oggetto simile, e dentro una slot machine, e per giunta una slot machine che accetta solo monete di un tipo che chissà come mai la strega non ha addosso, e che se usata con altre monete attiva una trappola mortale? Qui siamo oltre il fantasy e la fantascienza, e sconfiniamo nella presa in giro. Al 294 la sospensione dell’incredulità viene brutalmente spezzata chiedendo al lettore se vuole combattere un nemico, che ancora non ha visto, con gli occhi chiusi o aperti. Pretendere questo tipo di metaconsapevolezza potrà anche suggerire che il protagonista è un avventuriero esperto che trae le sue conclusioni osservando l’ambiente e l’illustrazione allegata, ma in termini di gioco è roba che neanche il più pivello dei dungeon master.
Ingiustizie: ho le monete per pagare il traghettatore, e lui per tutta risposta mi sbarca davanti ad un plotone di arcieri dove ho due probabilità su tre di morire per un tiro di dado. Un tiro ugualmente arbitrario mi aspetta proprio sulla soglia della sala finale, nonostante io sia arrivato fin lì districandomi in un dungeon che mi considera idiota quanto lui stesso e consumando una matita per scrivere tutta la roba che ci ho raccolto. Per tutta l’avventura affronto nemici insolitamente deboli, con picchi di Abilità 10, poi nel finale mi trovo uno Zagor con Abilità 11 e Resistenza 18, sebbene in tutto il libro non ci sia una singola Provvista per recuperare Resistenza. I recuperi d’energia sono talmente scarsi e sporadici che un solo combattimento andato male pregiudica seriamente la riuscita della missione.
Errori: le regole, scarne come nei giorni in cui la serie era neonata, mi dicono che ho con me una lanterna; e sarebbe anche logico. Peccato che poi Livingstone se ne dimentichi e me ne metta una in vendita, in previsione di un’astuta trappola: se ho una lanterna, in una certa stanza leggerò una scritta - più cretina di ogni graffito che i bagni pubblici abbiano mai ospitato - che mi costringerà a perdere 1 punto di Resistenza ad ogni paragrafo successivo, fino a trovare il rimedio (campa cavallo). Il lettore attento dovrà quindi farsi scivolare di mano la sua lanterna di serie e improvvisarsi Cavaliere Ramas per vedere al buio in un complesso di caverne, pur di sfuggire a questa brillante svista. Uno dei famosi denti di drago, invece di un numero, reca inciso un disegno. Quale sia il numero, io dovrei dedurlo per esclusione da istruzioni trovate in seguito. Peccato che non ci sia una effettiva conferma, perciò solo avendo esplorato tutto il giocatore può essere sicuro che non ci sia un altro dente a cui attribuire quel numero. Se voleva essere un’idea per stimolare il lettore a pensare un po’ oltre il testo letterale, non è granché riuscita. Un oggetto di bronzo diventa d’argento al momento di usarlo. Poco male, tanto non dovremmo usarlo, ma è sbagliato lo stesso. Il 79 non deve rimandare al 352, ma al 209.
Il tragico quadretto si conclude con lo spudorato riciclaggio di due situazioni già viste, identiche, in Armies of Death: gli amici di vela di Livingstone, di cui vengono elencati i nove (!) nomi fittizi nonostante ci accompagnino per sì e no altrettanti paragrafi; e la gara a chi mangia di più, che è completamente affidata ai dadi ma naturalmente DEVE essere vinta. Oh già, poi c’è anche il solito ritratto dell’autore (al 262), con tanto di logo FF sulla fibbia della cintura. Mi dispiace che Martin McKenna abbia il suo nome associato a questo libro, anche perché le sue tavole ne sono sicuramente l’aspetto migliore, troppo belle e d’atmosfera per accompagnare un testo così insignificante.
In retrospettiva è una fortuna che Return to Firetop Mountain abbia avuto abbastanza successo da riattizzare l’interesse nella serie e convincere l’editore a proseguirla. Tuttavia tale successo va sicuramente considerato il frutto di un’allucinazione di massa, dell’ipnosi esercitata dallo scintillante numero 50 abbinato al nome illustre di Ian Livingstone su un pubblico che chiaramente non poteva essere lo stesso che aveva affrontato il labirinto di Zagor dieci anni prima. In verità Return to Firetop Mountain non lo consiglierei neppure ai principianti, perché è così svogliato che perfino loro si renderebbero conto che è una presa per i fondelli fabbricata in fretta e furia (e forse sbuffando durante tutta la stesura, a giudicare dal risultato) per motivi meramente commerciali. Sì, è una fortuna che Fighting Fantasy non sia finito col suo numero 50, perché sarebbe stata una fine indegna, irrispettosa delle glorie passate e recenti, un ritorno alle origini solo nell’ingenuità, e non nello spirito.
|
|
|
|