Il Re Nano Ryvin di Bor ha disperatamente bisogno dell’aiuto dei Ramas: alcuni scavi recenti nei livelli inferiori del vasto regno sotterraneo di Bor hanno disturbato lo Shom’zaa, una potente entità malvagia relegata nelle viscere della terra dai Maghi Anziani durante la guerra dei Mille Anni contro Agarash il Dannato. Soltanto un Grande Maestro Ramas può affrontare i pericoli che si nascondono nel regno sotterraneo di Bor e sconfiggere il nemico. Così, quando Lupo Solitario decide di affidare a te la difficile missione, accetti con orgoglio.
Tolkien è certamente fonte di ispirazione più o meno diretta per chiunque abbia scritto fantasy e specialmente per chi ha creato librogame, però mai ci si sarebbe aspettati una copiatura tout court, e specialmente da Joe Dever. Invece, lo spunto de La Montagna Insanguinata è ben poco liberamente tratto dal Signore degli Anelli: il principe dei Nani di Bor, conoscenti di Lupo Solitario fin dal volume 5, spinto dall’avidità ha deciso di portare gli scavi minerari in una zona del suo regno sotterraneo dove la legge proibiva espressamente di scavare, perché è proprio lì che da migliaia di anni era imprigionato il Balrog… pardon, lo Shom’zaa, una potentissima creatura, con tutti i suoi simpatici sgherri. Ora lo Shom’zaa è a piede libero e ha preso possesso di interi livelli del regno di Bor, minacciando di distruggere l’intera popolazione dei Nani e quindi di fornire ai seguaci di Naar un’imprendibile roccaforte nel cuore del Magnamund. La missione consiste, ovviamente, nel trovare e distruggere lo Shom’zaa.
Visto come il presupposto potenzialmente interessante (una visita a Bor mancava nel grande atlante di Lupo Solitario) è stato mortificato con un canovaccio privo di inventiva, non ci si stupisce nell’approfondire che La Montagna Insanguinata è un episodio fiacco anche sotto gli altri aspetti. A parte altre “citazioni” tolkeniane (la tomba del re dei Nani con tanto di incisioni runiche), il regno di Bor, date le sue particolari caratteristiche, è identico a qualsiasi pezzo di Magnamund di superficie, con la differenza che al posto delle strade ci sono tunnel e sopra i campi coltivati c’è un soffitto di roccia. Nessun ambiente e nessun momento dell’avventura ha un qualche ‘che’ di significativo che lo distingua dal resto, e perfino nelle pur interessanti creature nemiche si ravvisano segni di scopiazzatura (il mostro della Fig. 5, se chiedete a me, proviene dritto dritto da Doom II). La piattezza della trama è favorita purtroppo anche da una traduzione di scarsissimo livello, ripetitiva fino alla nausea (dopo l’ennesima riproposizione, le “grida di ‘evviva’ ” vien voglia di ricacciarle in gola a chi le grida), varia e colorata quanto possono esserlo le gallerie che riporta e contenente perle assolute quali il “prode gesto” ma soprattutto la “Sacca Drodarin di Holding”, forse il capolavoro della Pelaschiar.
L’inconsistenza degli eventi si ripercuote inevitabilmente sul gameplay, togliendo ogni mordente alle possibili sfide. Troppi paragrafi sono anche stavolta dedicati agli esiti della triade Arco/Alchimia Ramas/Magi-magic, e talvolta perfino in modo superfluo (vedi il combattimento finale). I pochi duelli in cui ci si imbatte sono sempre contro gli stessi nemici, tranne ovviamente lo Shom’zaa che però si dovrebbe, visto che si può, evitare di affrontare faccia a faccia perché ha una potenza micidiale. Sorprende comunque come la Tomba di Andarin sia più potente di qualsiasi gruppo di scagnozzi dello Shom’zaa stesso, e a proposito di questo “avversario” sottolineo l’umiliante ruolo assunto dall’ascia Magnara, chiamata specificamente in causa in questo contesto ma poi dimenticata allorché si affronta, prima volta in questo ciclo, un autentico mostro di pietra! E già che siamo in tema di armi e oggetti, mi sembra giusto chiedersi il perché di così tanta roba assolutamente inutile da raccattare in giro, comprese due armi certamente fighissime oltre che magiche, ma di nessun valore pratico dal momento che questa volta non si rischia di rimanere senza Arma Ramas (e mi chiedo anche come mai queste armi non vengano restituite alla fine, come invece avveniva, ahimé, con l’eccezionale Spadone dei Cuorediferro). L’uso delle stesse Arti Superiori è gestito con scarsa attenzione (al 134 e al 155 si può arrivare solo avendo già l’Arte che viene poi richiesta) e lo stesso avviene nel caso del nome Brozal, dato per noto al 332 ma non necessariamente incontrato nei paragrafi precedenti.
Trovo abbastanza assurdo che uno dei pochi episodi della serie che aveva la possibilità di non essere pesantemente autoreferenziale non riesca ad avere delle scintille che lo distinguano dal resto, tranne forse il particolare stile adottato da Brian Williams in molte illustrazioni (il suo Shom’zaa per fortuna riscatta l’orripilante copertina di Jones). La Montagna Insanguinata è derivativo, piatto, banale, un lavoro che accusa stanchezza e che purtroppo arriva dopo una raffica di libri ottimi. Come già alcuni volumi passati, anche questo sembra trovare la sua giustificazione più che altro in un puro piacere documentario dell’autore, però con l’aggravante di non avere alle spalle un’avventura veramente degna di questo nome: La Montagna Insanguinata è incapace di soddisfare perfino il morboso gusto adolescenziale del creature slayer, a differenza per esempio de L’ira di Naar, e perciò non so proprio a chi possa piacere.
ERRATA CORRIGE - La Fig. 6 si riferisce al 91, e non al 93. 124: credo che un “missile” farebbe ben di peggio che far cadere a terra la sua vittima (è un generico termine inglese per “proiettile”, qui purtroppo tradotto alla lettera). 157: lo Scudo Psichico è un’Arte Ramastan, e non Superiore (è un errore concettuale importante, visti i possibili sviluppi successivi). 201: l’Arte usata è l’Interpretazione, non il Fiuto… 233: avendo usato il Magi-magic, è impossibile che l’incantesimo sia Mano di Fuoco. 286: la traduttrice non ha cancellato completamente il primo tentativo di traduzione (“ti fermi quando entri ti scontri con un carro”).